movimentazione / il dibattito

mercoledì 23 luglio 2008

Questioni di orizzonti

Il dato più rilevante che emerge, se guardiamo ai risultati congressuali parziali, sia quelli pubblicati dalla mozione 1, sia quelli pubblicati dalla mozione 2, informa che, chiunque sia il primo, in termini di consensi individuali delle compagne e dei compagni, per numero dei circoli, delle federazioni e delle regioni, da solo non raggiunge la maggioranza assoluta.

Altro elemento caratterizzante la intera fase pre-congressuale: il clima di scontro, di sfida. Quando si impugnano gli statuti, i regolamenti, quando si ricorre ai magistrati interni o addirittura esterni, vuol dire che, seppur fondatamente, non esiste più fiducia reciproca ed appare concreto il rischio di una scissione. La settima? Ma non è tanto un problema di numeri, quanto di significati. La separazione più grave e più dolorosa è quella dei tanti e delle tante che si sono allontanati a poco a poco dal partito, silenziosamente, nell’ultimo breve o medio periodo, scontenti, delusi, traditi.

Nel testo che ho appena letto, e cioè la proposta di documento conclusivo che è stata presentata al Congresso della federazione di Napoli da parte dei compagni della prima mozione col titolo “Per un nuovo Inizio, fuoei e dentro il Partito”, con primo firmatario Rino Malinconico, scorgo una sofferta ma spietata autocritica e penso che da ogni bilancio, anche il più disastroso, si può ricominciare a proporre criticamente un programma di ricostruzione. E’ proprio il tono che mi ha orientato alla mozione 1, che avrei votato se ne avessi avuta facoltà. Mentre mi risulta fastidiosa la supponenza di molti passaggi della mozione 2. Questo tanto per cominciare.

Giustamente il documento insiste sulla necessità di una opposizione rigorosa della sinistra oggi, specialmente in un’Italia minacciata dall’avanzata più o meno visibile di un nuovo fascismo, che usa per esempio l'emergenza per introdurre elementi di stravolgimento degli ordinamenti, come dimostra il caso rifiuti o la questione immigrazione; che interviene nelle questioni del lavoro con affondi disorientanti con cui, mentre si detassano gli straordinari, si cercano accordi con i sindacati per i contratti nazionali; che ha già dimostrato la sua durezza su temi cruciali come quello dei diritti (penso agli ultimi provvedimenti in materia di intercettazioni), ma anche attraverso un uso disinvolto dell'esercito; che diffonde l’episodio del portafogli rubato al Pigneto come vera emergenza sicurezza e tace, orizzontalmente, sul fatto che ci sono imprese private in Italia che si chiamano mafia, camorra, ‘ndrangheta che rappresentano una importante quota del Pil e che producono centinaia di morti; che trasforma il fastidio in emergenza e emargina dal dibattito politico il fatto che alcune regioni italiane sono sottratte alle leggi dello stato; e ancora tace sul fatto che questo è un Paese in cui abbiamo un bollettino da guerra civile per i morti sul lavoro.

Si propone, dunque, di uscire dal congresso con una “convergenza unitaria di tutte le energie del nostro partito”, per evitare “una situazione di stallo politico” che potrebbe determinarsi per la mancanza di una linea guida certa e condivisa.

L’esperienza della Sinistra Arcobaleno ha dimostrato che un’unità che fosse coerenza, coesione, condivisione e pari sovranità è cosa ben diversa da un’unità astratta e capace solo di produrre e sommare spesso diffidenze reciproche. Non è facile ammetterlo, però è molto coraggioso e leale, e dimostra tutta l’umiltà di chi ancora si interroga sul fatto e l’a farsi. E’ il punto di partenza.

Interrogarsi su come si ricostruisce un'opposizione efficace è un terreno possibile di discussione, è l’argomento che può ricompattare le varie voci della sinistra, unite certamente nella lotta al governo Berlusconi. Anche se la lotta contro Berlusconi non può essere l’unico argomento, e bisogna allargare la riflessione a contenuti e sensi. Anche il governo dell’Unione ha dimostrato che non è in termini di pura coalizione anti-qualcuno, di semplice assemblaggio di pezzi che si ricostruisce la funzione di una parte politica, tant’è che lo stesso documento reclama con forza una “discontinuità” rispetto ad esso e rispetto a logiche politiche estranee alla sinistra. E’ questo il momento di ritrovare i veri compagni di strada, con cui condividere la scelta delle tappe intermedie e fissare la meta ultima del viaggio. I riferimenti devono essere netti.

Solo in questo documento trovo chiaramente espresso un elenco di priorità intorno alle quali organizzare una opposizione significativa, un'opposizione credibile che muova da un'idea alternativa di società rispetto a quella berlusconiana fondata sul dominio sociale dell'impresa. Solo in questo scritto (e si badi bene, neanche nel documento Acerbo!) si sostiene la immediata rimessa in discussione di tutte le alleanze locali e regionali che non abbiano prodotto realmente “trasformazione” e che, non riuscendo ad ottenere dalle alleanze alcun beneficio per i referenti sociali, ci abbiano, addirittura, fatti percepire quasi ovunque come “uguali agli altri”. Solo qui vedo “altro” oltre l’opposizione a Berlusconi, vedo in lontananza, ma già chiaro nei contorni, un nuovo modello di società, costruita nei termini della civiltà.

A questo punto dovremmo chiederci: la sinistra che immaginiamo in questa fase di voler riproporre con una funzione di opposizione, che cosa pensiamo debba essere? Per me non si può pensare all’unione di tutto ciò che è all’opposizione, non sarebbe una buona partenza.

La tolleranza del dissenso è una primaria necessità in una organizzazione che si propone la RIFONDAZIONE di una pratica del COMUNISMO, ma è anche vero che talora si rilevano punti di dissenso insanabili.

Il riferimento deve essere un sistema di relazioni in cui si unisca la politica classicamente intesa a soggettività differenziate che stanno nella società, nelle professioni, nel lavoro, nella stessa rete, ma che necessariamente guardino verso lo stesso orizzonte.

E’ questo il momento dell’urgenza dell’azione, ma anche il momento per rafforzare l’ elemento di ricostruzione dei nessi sociali e di un impianto simbolico. E non è assolutamente vero che le due cose si oppongano come pratica e teoria, come presente e passato, chè anzi i fatti, quando c’è coerenza, sono sempre agiti in virtù di una particolare visione della realtà.

Claudia

P.S. Credo che, nonostante non sia stato accolto, il documento napoletano della mozione uno abbia comunque contribuito al dubbio, almeno stando ai numeri che leggo che, rispetto alle percentuali dei votanti delle varie mozioni, dimostrano un più largo numero di consensi. E’ questione di “orizzonti”, più o meno ariosi, e di capacità di analizzare le situazioni nella loro reale portata.

Non sono iscritta al partito, ma ho sempre votato per Rifondazione. Per favore, superate gli scontri e piuttosto ritrovate una linea politica che ci appassioni.

Verso l'alternativa di società: una recensione dei "Sette dialoghi sulla crisi della sinistra"

di Rita Bentedui

Ricorda Giovanni Russo Spena, nella introduzione all’agile libro di Rino Malinconico, Compagni avanti il gran partito (pp. 124, Edizioni Melagrana Onlus, € 5.00), come il nostro tempo sia quello complesso dello "stordimento" e dello "sciame inquieto" descritto da Bauman. Proprio per questo il viaggio, anche il “viaggio” politico, costituisce la modalità più consapevole di assunzione delle difficoltà e, al tempo stesso, un tentativo pressoché spontaneo di recuperare senso. Il viaggio che prospetta Malinconico è fatto di parole e si configura come un nuovo inizio, come un cammino che riprende, ma con altre modalità e altre angolazioni di marcia, dopo una “catastrofe” reale, cioè dopo il rovesciarsi obiettivo delle possibilità e l’interruzione obbligata del percorso. Il sottotitolo del libro – Dialoghi all’indomani della sconfitta - chiarisce immediatamente che stiamo parlando di una impresa collettiva, quella di Rifondazione comunista e della sinistra di alternativa, di uomini e donne posti improvvisamente di fronte alla crisi delle loro ragioni e della loro stessa identità. La pesante sconfitta elettorale del 14 aprile è declinata, infatti, come “rivelazione” di una disfatta ancora più grave, avvenuta già prima nel profondo della società. Restano certamente ancora vive le ragioni della speranza, ma un’intera fase storica s’avvia a conclusione. L’espediente narrativo di un dialogo che si articola in sette giornate non solo dà chiarezza all’argomentazione, ma coinvolge il lettore nel fluire di pensieri ed emozioni che attraversano, come un fiume in piena, una comunità vasta, certamente ferita, ma ancora straordinariamente ricca di saperi e di slanci ideali.

I tre militanti di Rifondazione Comunista (allusivamente, e irriverentemente, indicati coi nomi di Carlo, Federico e Rosa) che discutono a caldo, tra la fine di aprile e l’inizio di maggio, del dato sancito dalle urne, danno perciò voce a interrogativi diffusi e a brandelli di risposte, in un incedere che si presenta serrato nella esposizione ma anche emotivamente denso di vissuto. La tesi di fondo è che la crisi della sinistra di alternativa viene da lontano. Osserva Carlo, nel terzo dialogo: “noi abbiamo ragionato sul presupposto che avevamo alle nostre spalle una eredità formidabile, e cioè il grande radicamento sociale del Partito comunista italiano; e semplicemente per un inganno, perché qualcuno aveva alterato il “testamento”, non riuscivamo ancora ad entrarne liberamente in possesso… Abbiamo pensato questo: che avevamo già una base naturale di massa; e ciò solo perché ci sentivamo soggettivamente gli eredi di un passato. E per di più lo abbiamo pensato in un’epoca nella quale non solo le soggettività politiche venivano messe a torsione, ma anche le soggettività sociali. Non solo quel popolo non era “nostro”, ma era anche scomposto come tale; e anche ora deve ancora ritrovarsi come soggettività”.

La riflessione dei tre amici e compagni si allarga dunque alla realtà del conflitto sociale, alla critica del capitalismo, alla possibilità del comunismo. Ne esce fuori un giudizio preciso sul Novecento, che si è chiuso ovviamente per tutti, ma che a coloro che intendono mantenere vivo il riferimento al comunismo consegna tre ineludibili questioni: la nuova dislocazione del valore e la conseguente crisi della dialettica sociale; le nuove forme storiche della democrazia e la conseguente crisi della dialettica politica; la parabola storica delle formazioni comuniste e la conseguente crisi della forma-partito. Non sono tematiche che si risolvono in un documento, in un libro, in un dibattito. Per Malinconico non si tratta neppure di definirle in termini analitici ma di assumerle piuttosto come paradigmi fondativi del modo di essere dei comunisti del nostro tempo, muovendosi “non già dall’esterno ma proprio all’interno dello spazio che esse segnano nella storia e ci consegnano nel vivere concreto”.

Non bastano più le vecchie certezze: i “comunisti togliattiani”, che hanno proceduto con una continua “scissione concettuale e pratica tra programma massimo e programma minimo, tra strategia e tattica, tra ideali e pratica… sono stati come i panni logorati dal troppo uso, che alla fine non si riconoscono più neppure nel colore e nel disegno”; e simmetricamente gli altri, “bordighisti e trotzkisti di vario segno”, che hanno concepito “l'identità comunista, come avanguardia che si preserva e si prepara ad intercettare le dinamiche della società dentro gli scenari di crisi... sono stati come i panni riposti nei cassetti che, a poco a poco, ingialliscono, si tarlano, perdono di consistenza e diventano sostanzialmente inservibili”. Occorrono allora altri modi di essere e altri contenuti. Malinconico spinge i suoi personaggi a cimentarsi con un nuovo lessico politico:


C… Proprio perché è intervenuta la totalizzazione del rapporto di capitale, con la connessa integrazione di economia, politica e società, il punto di partenza di un discorso di liberazione dovrà oltrepassare necessariamente le colonne d’Ercole dell’orizzonte emancipativo: non potrà che incentrarsi sul “senso umano”, sull’”istinto di sopravvivenza” dell’uomo, quello che appunto resiste alla sua metamorfosi in merce e fattore produttivo.

R. In concreto?

C. In concreto: corpo, affetti, cultura, natura. Da qui si dipana, può dipanarsi, una nuova prospettiva di antagonismo e trasformazione. Dobbiamo prospettare cioè una rivoluzione anzitutto antropologica, e solo in questo senso anche sociale e politica.

R. Capisco dove vuoi arrivare: dobbiamo partire dagli esseri umani, non dagli assetti sociali.

C … Non dobbiamo avere timore a pronunciare parole come “cittadinanza” e “diritti”, “umanità” e “persona”. D’altronde abbiamo sempre saputo che a coronamento della trasformazione sociale, ci doveva essere una “nuova umanità”, uno sbocco antropologico. La novità è che quest’orizzonte oggi, nell’epoca della “totalizzazione del rapporto di capitale”, non viene più “dopo”; bensì accompagna fin dall’inizio l’antagonismo e la spinta rivoluzionaria. L’accompagna costitutivamente, nel senso che ne ri/definisce le parole d’ordine e gli obiettivi”.


Una svolta d’epoca, dunque. Con la difficoltà di generazioni che procedono visibilmente col piombo nelle ali. Quella degli anni ’70, costruitasi all’insegna di una fortissima etica della responsabilità, ma affetta anche da una ricorrente e inguaribile “ipertrofia del soggetto” (Malinconico la definisce generazione “atlanteide”, perché come Atlante ha presunto, e largamente ancora presume, di reggere sulle spalle il cielo), ha cumulato molti, troppi errori, proprio in quanto ha continuamente ricondotto a sé il mondo e il suo movimento; l’altra, quella di Genova e dello slogan “non in mio nome”, ha maturato un individualismo compiuto; ed è attraversata compiutamente dagli stilemi della comunicazione mediatica, e perciò si muove con una curvatura fortemente virtuale delle proprie percezioni: “agli atlanteidi sono succeduti i “narcisi”, ripiegati su se stessi... questo ripiegamento su se stessi è ovviamente figlio dei tempi… Ma un determinato tempo produce determinate figure umane, determinati sensi comuni. Se si ripiega su se stessi e sulla immediatezza del presente, la voce collettiva diviene più difficile a farsi”.

Il quadro che i dialoghi presentano al lettore è davvero poco rassicurante. La forza delle destre, ad esempio, dipende soprattutto da “una spinta storica di fondo, che è tipica del capitalismo dell'età della totalizzazione, in direzione di una società neo-autoritaria e neo-totalitaria. Proprio perché la valorizzazione è legata alla mobilitazione produttiva del corpo sociale, alla cointeragenza dell'insieme, avviene che la tendenza alla irregimentazione del corpo sociale nasca pressoché spontaneamente da quelle stesse dinamiche di sviluppo del capitalismo; e parallelamente si determina una realtà di rinnovata competizione, all’interno dello stesso quadro capitalistico, tra nazioni e gruppi di nazioni tra loro”. Sono spinte che vivono anche nella sinistra governista, ma la destra è avvantaggiata dal fatto che nel suo orizzonte culturale ci sono esattamente le idee del compattamento, della gerarchia, della struttura “ad esercito”. E non vale ribattere che la società di oggi apre largamente al più sfrenato individualismo. Per Malinconico “è un individualismo che rompe, per ragioni storiche oggettive, la dinamica collettiva dell’esser classe “per sé”; ma non è un individualismo che rompe col sistema”, con la spinta prevalente alla omologazione culturale e alla irregimentazione produttiva.

C’è possibilità di reagire? Per i tre amici e per l’autore, questa possibilità c’è. Ma a condizione che si percorrano strade nuove. E ciò anche rispetto alla forma-partito che dovrebbe configurarsi, sartrianamente, come una molteplicità di “gruppi in fusione”, e cioè come un insieme determinato e concreto di presenze, con gli sguardi che reciprocamente si incrociano e con un’attività effettiva e uno scopo reale, e anzi immediato, da realizzare. Un partito da attraversare, insomma, “a raggiera” e non “a piramide”, orizzontale e non verticale, comunista e continuamente innovativo.

Come si capisce, siamo ad un libro breve, ma intenso, che traguarda ben oltre la contingenza del congresso del PRC e si misura coi tempi lunghi della ripresa. E lo fa ammettendo esplicitamente di ignorare se poi esista veramente un possibile approdo. Del resto, come concordemente ci dicono Malinconico e Russo Spena, l’importante è esattamente il viaggio, la nuova ricerca della società "dentro e contro" la globalizzazione liberista. Questi "dialoghi" di Rino Malinconico indicano, con semplicità e rigore, la possibile rotta.


lunedì 14 luglio 2008

Per un nuovo inizio, fuori e dentro il partito

Proposta di documento conclusivo al congresso della federazione napoletana. Primo firmatario Rino Malinconico

Il congresso che si avvia a conclusione già ci consegna, al di là dell'esito numerico finale, una chiara indicazione politica: nessuna delle cinque mozioni nelle quali si è articolato il nostro dibattito interno potrà, da sola, “dare la linea”. Ad una prevalenza probabile della seconda mozione in termini di consensi individuali delle compagne e dei compagni, corrisponde, infatti, una probabile prevalenza della prima mozione riguardo al numero dei circoli, delle federazioni e delle regioni. Si registra, al tempo stesso, un insediamento non omogeneo, ma sicuramente consistente in molte parti d’Italia, delle altre tre mozioni. L'insieme di questi dati, al di là delle percentuali che risulteranno dal conteggio finale, ci dice che il congresso lascia sostanzialmente aperti i nodi sui quali abbiamo fin qui dibattuto con toni aspri, e anche con momenti di vera e propria lacerazione, che vanno al più presto superati e ricomposti.
Ma il fatto che il congresso non riesca a dire una parola conclusiva sulla linea politica di fase può evitare di tradursi in una situazione di stallo politico soltanto se il dopo-congresso recupererà un reale movimento di convergenza unitaria di tutte le energie del nostro partito. D'altronde, il cammino che Rifondazione comunista ha davanti, la sua evidente non autosufficienza, e la sua altrettanto evidente imprescindibilità nella costruzione dell'opposizione sociale alle destre e al governo Berlusconi e nella ripresa di una dinamica ampia di conflitto sui temi del lavoro, dei diritti, dell'ambiente e delle solidarietà, postula proprio il più pieno coinvolgimento delle compagne e dei compagni, di tutte le culture e tutte le sensibilità politiche presenti al nostro interno.

Il PRC è una comunità di donne e uomini portatrice non solo di una storia e di un riferimento ideale, ma anche di una importante innovazione culturale, sviluppatasi in tutto l’arco della nostra esistenza come partito e segnatamente nell'ultimo decennio, in connessione con l’iniziativa di massa contro la guerra permanente e la globalizzazione liberista. Non solo abbiamo contribuito positivamente a pratiche di opposizione e di resistenza che hanno avuto, ed hanno, dimensioni internazionali, ma abbiamo proposto, dentro gli stessi movimenti, i temi decisivi della critica del capitalismo e della maturità storica della trasformazione in senso comunista dell'insieme dei rapporti sociali. Lo abbiamo fatto non enunciando astrattamente la nostra identità rivoluzionaria ma tentando di far vivere l'orizzonte strategico dell’alternativa di società negli stessi percorsi concreti della lotta di classe e del conflitto sociale, intrecciando la tradizione fondamentale del movimento operaio con le pratiche della non violenza attiva e con i contenuti proposti dal femminismo, dalle culture di genere e dall’ambientalismo.

Questo percorso va oggi continuato, così come va rilanciata la proposta della “rifondazione comunista” in quanto elemento qualificante di una più generale ricostruzione della sinistra in Italia. Ciò implica un preciso impegno di tutte le nostre strutture, in primo luogo dei nostri circoli, per rafforzare davvero la presenza del nostro partito nei territori e nei luoghi di lavoro, caratterizzandoci ovunque come soggetto attivo dell’opposizione alle destre, come realtà propulsiva di lotte e vertenze e come fattore di unità dell’arcipelago, oggi disperso, della sinistra di alternativa. Un passaggio importante di questa complessiva ripresa di protagonismo sarà costituito dalle ormai vicine elezioni europee e amministrative del 2009, alle quali è bene che il PRC si presenti con il proprio simbolo e la propria fisionomia politica, dando vita comunque ad un percorso aperto e partecipato nella formazione delle liste, che punti ad interagire con tutte le energie che positivamente si muovono in direzione della ricostruzione di una sinistra di alternativa in Italia.

A partire dal nostro rafforzamento nella società e dalla pratica concreta dell’opposizione al governo Berlusconi va declinato anche il rapporto possibile con l’opposizione di centro-sinistra, che mostra oggi chiari segni di incapacità, e addirittura di subalternità, nel fare argine alla pesantissima offensiva culturale e normativa delle destre. Se il Partito Democratico non assumerà con fermezza una posizione di contrasto frontale alle politiche xenofobe e neorazziste del governo Berlusconi; se non recupererà, sui temi del lavoro, delle precarietà e del salario, una reale scelta di campo contro l’offensiva congiunta di governo e Confindustria; se non difenderà con coerenza il principio dell’universalità e della gratuità dei servizi alle persone in tema di istruzione, sanità e previdenza; se non praticherà una chiara opzione laica e libertaria per quanto concerne i diritti delle persone e la libertà degli orientamenti sessuali; se non avvierà una iniziativa riconoscibile in difesa della pace, opponendosi senza ambiguità alle dichiarate velleità belliciste del governo; se non farà valere la civiltà dei vincoli ambientali, pronunciando in particolare un no esplicito alle derive nucleariste che già emergono, nonché alle “grandi opere” inutili e costose; se, in una parola, non farà un’opposizione vera sui temi che riguardano la quotidianità e la vita delle persone, non sarà praticabile un vero fronte unitario dell’opposizione politica e sociale. Sarebbe una iattura, perché il governo Berlusconi di oggi è ancora più forte, più determinato e più regressivo di quello avviatosi nel 2001. Ma ad un pericolo così drammatico ci si deve opporre con coerenza e chiarezza, chiamando senza tentennamenti alla mobilitazione e alla iniziativa. La perdita di credibilità del centrosinistra e della sinistra, così plasticamente evidenziata dalla sconfitta elettorale di aprile, è dipesa largamente dalle ambiguità, dalle reticenze, dalle timidezze, dalle subalternità che hanno caratterizzato la vita del governo Prodi, determinando una condizione di distanza e di separatezza con i settori sociali che avevano dato alla coalizione fiducia e speranza. Sarebbe davvero senza attenuanti se riproducessimo ora, dalla condizione di opposizione, gli stessi vizi di politicismo che ci hanno penalizzati tutti, sinistra e centro-sinistra, nella fase del governo.

Muoversi con discontinuità rispetto a quanto abbiamo fatto negli ultimi due anni (noi di Rifondazione Comunista, ma anche tutta la sinistra e tutto il centrosinistra) non è necessario soltanto per contrastare più efficacemente il governo Berlusconi, ma anche per dare un una prima positiva risposta alla crisi della politica e a quello che ancora più oscuramente si muove dietro di essa, e che sembra configurarsi in termini di vera e propria crisi delle relazioni di civiltà. La qual cosa investe per intero, oltre le questioni di carattere nazionale, anche il piano delle questioni locali. Anzi, per molti aspetti, sul piano locale i fattori di crisi -crisi delle istituzioni, crisi dei progetti di governo, crisi del conflitto sociale, crisi dei partiti, crisi dello stesso vincolo della “polis”- si manifestano con particolare virulenza.

Qui in Campania, nella nostra provincia metropolitana, a Napoli e nello hinterland, la crisi della politica e la crisi di civiltà risultano drammaticamente evidenti. Il disastro dei rifiuti, il disastro della sanità, la disgregazione continua del tessuto produttivo, il dilagare delle mafie e delle economie illegali: siamo ormai ad un stadio di quasi collasso della tenuta civile e politica. Non è solo colpa delle istituzioni locali, ovviamente. Ma sicuramente è anche colpa delle istituzioni locali. Una intensa stagione politica di governo locale, di cui siamo stati parte integrante, è al suo stadio di consunzione definitiva. Non serve dire che si sono fatte anche tante cose buone (che pure si sono effettivamente fatte); e neppure che c’è stata una fase prevalentemente positiva, all’inizio. Se vogliamo prospettare alla sinistra (ma anche al centrosinistra) un futuro possibile in Campania e nel napoletano, occorre con urgenza avviare la stagione della “discontinuità”, del cambiamento di rotta.

Ciò significa, in primo luogo, recuperare una dialettica positiva tra le istanze che emergono dai territori e dalle popolazioni e l'iniziativa politica e istituzionale. Trasparenza, partecipazione, condivisione: o questi elementi caratterizzano pienamente la gestione della cosa pubblica, cessando di essere semplici parole di accompagnamento di una pratica politica separata, oppure la crisi di credibilità, i cui effetti devastanti abbiamo già conosciuto sul piano nazionale, si manifesterà in modo moltiplicato sul piano locale.

La riproposizione delle coalizioni di centrosinistra nei comuni, nelle province e nella stessa regione Campania passa, dunque, dal nostro punto di vista, per un modo di fare politica molto diverso da quello che ci ha caratterizzato finora. E’ una discontinuità di logiche, di priorità, di pratiche e, conseguentemente, anche di persone, quella cui noi alludiamo. Nel lessico tradizionale, ciò che chiediamo lo si potrebbe definire, riduttivamente, “una impegnativa verifica politico-programmatica” sui temi della qualità della gestione, della programmazione economica, del risanamento ambientale e dei diritti delle persone; sul piano delle urgenze drammatiche di oggi, quello che davvero prospettiamo è “un nuovo inizio”. E lo indichiamo, soprattutto, ponendo come imprescindibile il coinvolgimento reale della società, di tutte le voci attive, dagli intellettuali ai comitati, ai movimenti. Di tutto c’è bisogno fuorché di una discussione al chiuso delle stanze. E proponiamo, inoltre, come primo obiettivo politico di questa diversa progressione di marcia, l’apertura di una grande campagna contro il federalismo fiscale, che contrasti la Lega e il razzismo più o meno esplicito del governo Berlusconi nei confronti del Sud non semplicemente richiedendo sovvenzioni, ma mostrando con chiarezza il possibile utilizzo virtuoso delle risorse pubbliche, con una priorità esplicita nei confronti del fasce deboli e delle sofferenze sociali.

A tal fine proponiamo che il Partito proponga a tutte le realtà dell’opposizione sociale e politica e ai sindacati dei lavoratori di dar vita a una grande manifestazione nazionale a Napoli in autunno, che assuma il tema del Mezzogiorno e l’aggravarsi, ancora più drammatico proprio in questa parte del paese, dei fattori di crisi economica, sociale, ambientale e di tenuta civile, come grandi questioni che investono, in modo decisivo, la democrazia italiana nel suo complesso. Per dare concretezza e forza ad una tale iniziativa, il PRC napoletano fa specificamente appello a tutte le realtà che lottano sul nostro territorio: ai lavoratori che contrastano dismissioni e esternalizzazioni e costruiscono vertenze sul salario e sulle condizioni di lavoro; alle comunità che si battono contro discariche e inceneritori e chiedono un’uscita dall’emergenza-rifiuti realmente incentrata sulle pratiche di riduzione dei rifiuti, di riuso degli oggetti e di riciclaggio dei materiali; ai comitati che rivendicano i diritti delle persone in tema di salute, casa e servizi pubblici; ai movimenti di lotta di precari e disoccupati; alle associazioni che contrastano le camorre e il degrado ambientale e civile; alle realtà studentesche e associative che difendono la scuola pubblica e il diritto all’istruzione; alle comunità organizzate dei migranti che indicano, giustamente, nella battaglia antirazzista il principale fronte di lotta contro la politica autoritaria delle destre; alle esperienze diffuse che si battono contro l’omofobia e per la piena autodeterminazione degli orientamenti sessuali… La nostra idea è che tutti insieme potremmo dar vita ad una “rete” e a una “carta generale” delle proposte e delle rivendicazioni, da far valere, in sede locale e in sede nazionale, anche oltre la manifestazione.

Noi giudichiamo assolutamente urgente questo nuovo inizio, col suo intreccio di mobilitazioni, partecipazione e protagonismo “dal basso”, e lo suggeriamo ai nostri alleati delle coalizioni locali. In ogni caso, per quel che ci riguarda, intendiamo assumere quest'importazione e comportarci di conseguenza. S’apre, dunque, per noi, qui nella provincia di Napoli, e proponiamo in tutta la Campania, una decisiva fase di ascolto e interlocuzione con la società, alla cui dinamica profonda rimettiamo i termini medesimi della nostra iniziativa politica, della nostra collocazione istituzionale e della nostra proposta programmatica.

Dar vita ad una intensa fase di ascolto e interlocuzione con la società campana, con i nostri settori sociali di riferimento, ci è necessario non solo per capire ma anche, e soprattutto, per ridislocare più coerentemente il nostro partito dentro le dinamiche sociali. In tale quadro scegliamo come assolutamente prioritario il rapporto coi luoghi di lavoro, sia quelli tradizionali delle fabbriche, dei negozi e delle strutture di servizio, sia quelli di “nuova generazione”, polverizzati in una gamma variegata di figure professionali, tutte sostanzialmente subordinate e drammaticamente precarie. D'altronde non è un mistero per nessuno che proprio nei luoghi di lavoro si è consumata la più consistente frattura tra la sinistra e la società. Questo è valso anche per il nostro partito, per Napoli e per la nostra provincia. Riannodare i fili col lavoro dipendente e con l’universo del precariato e della disoccupazione è perciò un impegno fondamentale. Va declinato sia attraverso l’avvio di campagne nazionali contro la legge 30 e per il ripristino della scala mobile e il recupero salariale, sia sul piano locale, attivandoci in tutti i modi contro le dismissioni industriali, contro le esternalizzazioni continue, contro il dilagare del “privato” nei servizi pubblici, contro l’economia “di rapina”, che approfitta delle provvidenze pubbliche e fa terra bruciata nei territori in cui si insedia.

Ma l'autocritica cui siamo chiamati non concerne solo il nostro mancato insediamento nei luoghi di lavoro. E’ una autocritica più generale, che riguarda l'insieme del nostro modo di essere. Discontinuità e nuovo iniziò sono necessari anche dentro il partito. Anche dentro il partito napoletano. Occorre una diversa distribuzione della “sovranità” tra i circoli, da un lato, e la federazione e le strutture centrali, dall’altro, che valorizzi nettamente le realtà territoriali; e occorre una diversa modalità di relazione nel corpo del partito, nell’insieme delle compagne e dei compagni, che metta al bando le pratiche di cooptazione per affiliazioni o per “filiere” e che faccia valere, senza deroghe e a tutti i livelli, i principi elementari dei due mandati complessivi e della rotazione degli incarichi, sia di direzione politica che di rappresentanza istituzionale; e occorre, infine, una stringente tutela delle condizioni di autonomia del partito, in particolare separando i nostri quadri dirigenti dalle collocazioni istituzionali e dall’universo delle nomine negli enti.

Nella scelta tra le mozione congressuali, il pronunciamento della nostra federazione è risultato netto, perché oltre i due terzi delle sottoscrizioni sono andate al secondo documento. Questo ha conseguenze sul piano, appunto, delle mozioni congressuali, sul piano della discussione che riguarda la linea politica nazionale. Ma i numeri congressuali non sciolgono i nodi che abbiamo davanti in questa realtà così complessa; non risolvono il problema, neppure quando sono particolarmente ampi, di come attrezzare il nostro partito di fronte alle richieste, implicite e scomposte, ma non per questo meno reali, che salgono dal fondo della società napoletana. Una gestione unitaria e condivisa del partito e delle iniziative che dobbiamo mettere in campo si impone di fatto, anche al di là delle convinzioni di ciascuno su come, in generale, dovrebbe funzionare la dialettica interna ad una forza che si richiama al comunismo. Si impone proprio per la complessità e le urgenze che dovremo affrontare. Il VII Congresso Provinciale del PRC indica perciò, nel recupero pieno di una pratica unitaria di direzione politica, una degli obiettivi fondamentali del dopo-congresso, e fa appello alla maturità e al senso di responsabilità di tutte le compagne e tutti i compagni, affinché vengano archiviate, psicologicamente ed emotivamente, oltre che politicamente, le molte asprezze registrate nella discussione.

Napoli, 13 luglio 2008

(posto in votazione il documento risulta respinto con 61 voti a favore, 127 voti contrari e 27 astensioni)


sabato 5 luglio 2008

Cronaca di un congresso di circolo

Circolo di Ponticelli (Napoli) venerdì 27 giugno e domenica mattina 29 giugno

Vado a Ponticelli come presentatore del primo documento. Non so che aspettarmi. Ponticelli (con Barra e San Giovanni) era, un tempo, la zona maggiormente industrializzata della periferia di Napoli ed il partito comunista era di gran lunga il primo partito in una città, per il resto, laurina e democristiana. Una forte e coesa classe operaia che, dico nella mia presentazione, se il PCI , per assurdo, avesse candidato Agnelli, lo avrebbe votato. Tale era la fiducia nelle scelte del partito. La fiducia nella politica.

Quando arrivo, venerdì, trovo nel circolo degli anziani che giocano a carte. Poco dopo arrivano due, tre compagni. Con la “solita” puntualità tutta napoletana dopo mezz’ora arrivano il garante (una giovane ed inesperta compagna, evidentemente al suo primo congresso) ed un ex senatore che presenta il secondo documento più un giovane compagno che presenta il quarto documento.

In ritardo di “solo” un’ora inizia il congresso. Ci sono i presentatori, il garante, ed una dozzina di compagni in tutto ( tra cui il segretario) di cui otto sostenitori del primo documento. Prima la relazione del segretario che si sofferma sui fatti di Ponticelli (la cacciata dei Rom) per stigmatizzare il ruolo avuto dalla camorra, la speculazione sui terreni occupati dai Rom, lo sconcio comportamento del PD (il manifesto poi ritrattato) ed elogiare il compagno (è uno dei pochi presenti) che da solo si è molto speso per aiutare le famiglie in fuga, Nemmeno una parola sull’assenza di tutti gli altri del partito (ci sono 101 iscritti al circolo).

Poi le presentazioni in una atmosfera molto informale, forse troppo, tanto che la garante introduce con una domanda (manco fossimo a porta a porta) il compagno che presenta il quarto documento.

Si arriva al dibattito che vede l’intervento di un solo compagno (sostenitore del primo documento) e poi dopo un chiacchierare informale si chiude la giornata per rivederci la domenica mattina.

Anche la domenica si comincia in ritardo ed i presenti sono gli stessi di Venerdì. Due interventi uno del primo documento ed uno del secondo. Poi la replica dei presentatori. Esordisco dicendo che so di non poter convincere nessuno perché, come è giusto le convinzioni sono precostituite e si basano sulla lettura dei documenti e vado a ruota libera e vedo molti compagni annuire ed applaudire per poi votare per Vendola al momento di esprimere il voto. Ho dimenticato di dire che improvvisamente, verso la fine delle repliche (la mia è l’ultima) sull’ingresso del circolo (è a fronte strada) si è radunata una piccola folla ed anche le sedie sono tutte occupate. Sono arrivati tutti, o quasi, perché è il momento della votazione. Altro che aver letto i documenti ed essersi fatta una convinzione personale. Si inizia la chiamata che è punteggiata da “sta arrivando” e “adesso lo chiamiamo” ed un gruppo di frettolosi compagni esprime il voto per poi andare via di corsa. 7 voti al primo documento e 55 voti al secondo. Sarebbero stati 8 i voti al primo documento ma per un compagno non c’erano più tessere e. quindi, non lo si era potuto tesserare in tempo utile. Strano perché sui 101 aventi diritto al voto sono 40 i nuovi iscritti 2008 ed hanno tutti votato; mentre solo 22 su 61 iscritti 2007 ha votato. Significherà qualcosa? I compagni del circolo non mi paiono turbati dalla cosa, né dalla fugace apparizione dei nuovi iscritti che hanno espresso il voto senza aver partecipato al dibattito, peraltro, non defatigante. Sono, invece, molto contenti (lo è anche il garante!! che garante!!!) per aver fatto il pieno di delegati).

Io che non ho mai partecipato ai congressi della vecchia DC né del nuovo (sic!) PD perché non sono mai stato democristiano, immagino, però, che non siano stati e non siano tanto dissimili da quello a cui oggi ho partecipato. E poi ci chiediamo perché la gente ci vede uguali agli altri e perchè non ci votano? Ma ce lo chiediamo seriamente o per prendere/ci in giro?

Ma anche se vinceranno (in questo modo) non si libereranno di noi

Massimo Miniero segretario circolo Che Guevara Napoli