movimentazione / il dibattito

mercoledì 23 luglio 2008

Verso l'alternativa di società: una recensione dei "Sette dialoghi sulla crisi della sinistra"

di Rita Bentedui

Ricorda Giovanni Russo Spena, nella introduzione all’agile libro di Rino Malinconico, Compagni avanti il gran partito (pp. 124, Edizioni Melagrana Onlus, € 5.00), come il nostro tempo sia quello complesso dello "stordimento" e dello "sciame inquieto" descritto da Bauman. Proprio per questo il viaggio, anche il “viaggio” politico, costituisce la modalità più consapevole di assunzione delle difficoltà e, al tempo stesso, un tentativo pressoché spontaneo di recuperare senso. Il viaggio che prospetta Malinconico è fatto di parole e si configura come un nuovo inizio, come un cammino che riprende, ma con altre modalità e altre angolazioni di marcia, dopo una “catastrofe” reale, cioè dopo il rovesciarsi obiettivo delle possibilità e l’interruzione obbligata del percorso. Il sottotitolo del libro – Dialoghi all’indomani della sconfitta - chiarisce immediatamente che stiamo parlando di una impresa collettiva, quella di Rifondazione comunista e della sinistra di alternativa, di uomini e donne posti improvvisamente di fronte alla crisi delle loro ragioni e della loro stessa identità. La pesante sconfitta elettorale del 14 aprile è declinata, infatti, come “rivelazione” di una disfatta ancora più grave, avvenuta già prima nel profondo della società. Restano certamente ancora vive le ragioni della speranza, ma un’intera fase storica s’avvia a conclusione. L’espediente narrativo di un dialogo che si articola in sette giornate non solo dà chiarezza all’argomentazione, ma coinvolge il lettore nel fluire di pensieri ed emozioni che attraversano, come un fiume in piena, una comunità vasta, certamente ferita, ma ancora straordinariamente ricca di saperi e di slanci ideali.

I tre militanti di Rifondazione Comunista (allusivamente, e irriverentemente, indicati coi nomi di Carlo, Federico e Rosa) che discutono a caldo, tra la fine di aprile e l’inizio di maggio, del dato sancito dalle urne, danno perciò voce a interrogativi diffusi e a brandelli di risposte, in un incedere che si presenta serrato nella esposizione ma anche emotivamente denso di vissuto. La tesi di fondo è che la crisi della sinistra di alternativa viene da lontano. Osserva Carlo, nel terzo dialogo: “noi abbiamo ragionato sul presupposto che avevamo alle nostre spalle una eredità formidabile, e cioè il grande radicamento sociale del Partito comunista italiano; e semplicemente per un inganno, perché qualcuno aveva alterato il “testamento”, non riuscivamo ancora ad entrarne liberamente in possesso… Abbiamo pensato questo: che avevamo già una base naturale di massa; e ciò solo perché ci sentivamo soggettivamente gli eredi di un passato. E per di più lo abbiamo pensato in un’epoca nella quale non solo le soggettività politiche venivano messe a torsione, ma anche le soggettività sociali. Non solo quel popolo non era “nostro”, ma era anche scomposto come tale; e anche ora deve ancora ritrovarsi come soggettività”.

La riflessione dei tre amici e compagni si allarga dunque alla realtà del conflitto sociale, alla critica del capitalismo, alla possibilità del comunismo. Ne esce fuori un giudizio preciso sul Novecento, che si è chiuso ovviamente per tutti, ma che a coloro che intendono mantenere vivo il riferimento al comunismo consegna tre ineludibili questioni: la nuova dislocazione del valore e la conseguente crisi della dialettica sociale; le nuove forme storiche della democrazia e la conseguente crisi della dialettica politica; la parabola storica delle formazioni comuniste e la conseguente crisi della forma-partito. Non sono tematiche che si risolvono in un documento, in un libro, in un dibattito. Per Malinconico non si tratta neppure di definirle in termini analitici ma di assumerle piuttosto come paradigmi fondativi del modo di essere dei comunisti del nostro tempo, muovendosi “non già dall’esterno ma proprio all’interno dello spazio che esse segnano nella storia e ci consegnano nel vivere concreto”.

Non bastano più le vecchie certezze: i “comunisti togliattiani”, che hanno proceduto con una continua “scissione concettuale e pratica tra programma massimo e programma minimo, tra strategia e tattica, tra ideali e pratica… sono stati come i panni logorati dal troppo uso, che alla fine non si riconoscono più neppure nel colore e nel disegno”; e simmetricamente gli altri, “bordighisti e trotzkisti di vario segno”, che hanno concepito “l'identità comunista, come avanguardia che si preserva e si prepara ad intercettare le dinamiche della società dentro gli scenari di crisi... sono stati come i panni riposti nei cassetti che, a poco a poco, ingialliscono, si tarlano, perdono di consistenza e diventano sostanzialmente inservibili”. Occorrono allora altri modi di essere e altri contenuti. Malinconico spinge i suoi personaggi a cimentarsi con un nuovo lessico politico:


C… Proprio perché è intervenuta la totalizzazione del rapporto di capitale, con la connessa integrazione di economia, politica e società, il punto di partenza di un discorso di liberazione dovrà oltrepassare necessariamente le colonne d’Ercole dell’orizzonte emancipativo: non potrà che incentrarsi sul “senso umano”, sull’”istinto di sopravvivenza” dell’uomo, quello che appunto resiste alla sua metamorfosi in merce e fattore produttivo.

R. In concreto?

C. In concreto: corpo, affetti, cultura, natura. Da qui si dipana, può dipanarsi, una nuova prospettiva di antagonismo e trasformazione. Dobbiamo prospettare cioè una rivoluzione anzitutto antropologica, e solo in questo senso anche sociale e politica.

R. Capisco dove vuoi arrivare: dobbiamo partire dagli esseri umani, non dagli assetti sociali.

C … Non dobbiamo avere timore a pronunciare parole come “cittadinanza” e “diritti”, “umanità” e “persona”. D’altronde abbiamo sempre saputo che a coronamento della trasformazione sociale, ci doveva essere una “nuova umanità”, uno sbocco antropologico. La novità è che quest’orizzonte oggi, nell’epoca della “totalizzazione del rapporto di capitale”, non viene più “dopo”; bensì accompagna fin dall’inizio l’antagonismo e la spinta rivoluzionaria. L’accompagna costitutivamente, nel senso che ne ri/definisce le parole d’ordine e gli obiettivi”.


Una svolta d’epoca, dunque. Con la difficoltà di generazioni che procedono visibilmente col piombo nelle ali. Quella degli anni ’70, costruitasi all’insegna di una fortissima etica della responsabilità, ma affetta anche da una ricorrente e inguaribile “ipertrofia del soggetto” (Malinconico la definisce generazione “atlanteide”, perché come Atlante ha presunto, e largamente ancora presume, di reggere sulle spalle il cielo), ha cumulato molti, troppi errori, proprio in quanto ha continuamente ricondotto a sé il mondo e il suo movimento; l’altra, quella di Genova e dello slogan “non in mio nome”, ha maturato un individualismo compiuto; ed è attraversata compiutamente dagli stilemi della comunicazione mediatica, e perciò si muove con una curvatura fortemente virtuale delle proprie percezioni: “agli atlanteidi sono succeduti i “narcisi”, ripiegati su se stessi... questo ripiegamento su se stessi è ovviamente figlio dei tempi… Ma un determinato tempo produce determinate figure umane, determinati sensi comuni. Se si ripiega su se stessi e sulla immediatezza del presente, la voce collettiva diviene più difficile a farsi”.

Il quadro che i dialoghi presentano al lettore è davvero poco rassicurante. La forza delle destre, ad esempio, dipende soprattutto da “una spinta storica di fondo, che è tipica del capitalismo dell'età della totalizzazione, in direzione di una società neo-autoritaria e neo-totalitaria. Proprio perché la valorizzazione è legata alla mobilitazione produttiva del corpo sociale, alla cointeragenza dell'insieme, avviene che la tendenza alla irregimentazione del corpo sociale nasca pressoché spontaneamente da quelle stesse dinamiche di sviluppo del capitalismo; e parallelamente si determina una realtà di rinnovata competizione, all’interno dello stesso quadro capitalistico, tra nazioni e gruppi di nazioni tra loro”. Sono spinte che vivono anche nella sinistra governista, ma la destra è avvantaggiata dal fatto che nel suo orizzonte culturale ci sono esattamente le idee del compattamento, della gerarchia, della struttura “ad esercito”. E non vale ribattere che la società di oggi apre largamente al più sfrenato individualismo. Per Malinconico “è un individualismo che rompe, per ragioni storiche oggettive, la dinamica collettiva dell’esser classe “per sé”; ma non è un individualismo che rompe col sistema”, con la spinta prevalente alla omologazione culturale e alla irregimentazione produttiva.

C’è possibilità di reagire? Per i tre amici e per l’autore, questa possibilità c’è. Ma a condizione che si percorrano strade nuove. E ciò anche rispetto alla forma-partito che dovrebbe configurarsi, sartrianamente, come una molteplicità di “gruppi in fusione”, e cioè come un insieme determinato e concreto di presenze, con gli sguardi che reciprocamente si incrociano e con un’attività effettiva e uno scopo reale, e anzi immediato, da realizzare. Un partito da attraversare, insomma, “a raggiera” e non “a piramide”, orizzontale e non verticale, comunista e continuamente innovativo.

Come si capisce, siamo ad un libro breve, ma intenso, che traguarda ben oltre la contingenza del congresso del PRC e si misura coi tempi lunghi della ripresa. E lo fa ammettendo esplicitamente di ignorare se poi esista veramente un possibile approdo. Del resto, come concordemente ci dicono Malinconico e Russo Spena, l’importante è esattamente il viaggio, la nuova ricerca della società "dentro e contro" la globalizzazione liberista. Questi "dialoghi" di Rino Malinconico indicano, con semplicità e rigore, la possibile rotta.


1 commento:

neologos ha detto...

neologos@interfree.it