movimentazione / il dibattito
sabato 31 maggio 2008
Appello alla gentilezza
Abbiamo di fronte il montare di una reazione di massa, di una cultura da basso ventre. Di una politica del "me ne frego", sintonica con l'egoismo sociale da ipermercato troppo pieno. Vetrine luccicanti e miseri sentimenti di superiorità disegnano uno spazio in cui persino la possibilità della rappresentazione politica dell'agire per la trasformazione sociale sembra sfumare dentro il ribollire delle piccole patrie, del "sto prima io", della merda familistica. Proprio il totalizzarsi del rapporto di capitale nella fase della globalizzazione, la mercificazione non solo delle cose, ma anche dei corpi, delle idee, delle rappresentazioni e, soprattutto, proprio la sua crisi odierna esalta l'impossibilità della liberazione dentro i confini di questa società e toglie il respiro alla possibilità di una rappresentazione solo "politica" dell'oltre, tenta di chiudere con il filo spinato "l'essere in questo mondo, ma non di questo mondo".
Per questo mi sembra un errore insistere con ricette "politiciste", cioè che vivono sostanzialmente nel cielo della politica, e con la personalizzazione delle posizioni. Per questo sosterrò con la convinzione possibile, quella cioè permeata dal dubbio come metodo e come sostanza, la linea politica che propone di salvare una presenza "comunista" e dunque rivoluzionaria, e di svilupparla, coniugandola innanzitutto dal lato dell'autorganizzazione sociale. Per questo mi sembra giusto porre davanti l'utilità nostra, l'utilità collettiva, non di un singolo ma di una comunità.
Ma allo stesso tempo, in nome dell'unico dio che intendo servire, proprio il dio clemente e amorevole del dubbio, io vorrei essere gentile. Non mi appello agli altri, sottintendendo un giudizio: ma a me stesso. Devo essere gentile, per capire, per non impoverire oltre questo agire e pensare; per sentirmi egoisticamente più ricco, devo essere gentile. Cedere il passo, ed essere il primo a farlo; sorridere se si urla, parlare a bassa voce. Non che sia dotato di queste virtù, ma adesso è il momento di cercarle, di trovarle, nel profondo dell'animo.
Facciamo di questo nostro discutere un momento lungo e paziente di ascolto, organizziamoci per sentirci. Dovunque possibile, non per l'obbligo del volersi bene, ma per il rispetto che merita la nostra storia, per la speranza che merita questa umanità.
Giosuè Bove
uno, uno e mezzo, due, due e mezzo (con una premessa). Della semplicità, dell'unità e dell'autonomia
premessa
La titolazione che qualche volta adotto per distinguere un pensiero o un argomento dall'altro, utilizzando la sequenza dei numeri ed esprimendoli rigorosamente a lettere è un vezzo, o più precisamente un plagio: lo confesso, sono un lettore accanito di Andrea Camilleri e il suo Montalbano è uno sbirro che, però, mi piace. Chi ha voluto vedere nella sequenza "uno, due, tre, quattro e cinque" un modo di contare le tacche sul fucile del tiratore scelto è evidentemente influenzato da altro tipo di letture. Vi giuro che non ho intenti omicidi, e che invece amo la discussione, l'argomentare anche aspro. E che il litigare delle idee non mi produce effetto sulle relazioni affettive, se non temporaneamente (sempre di carne sono fatto, e da parecchi anni, purtroppo, anche con una certa abbondanza). Vorrei, dunque, poter continuare con questo vezzo e con questo plagio. I numeri hanno un loro fascino, vengono dal deserto, dai commerci antichi, portano addosso il sapore della sabbia e del mare. La loro sequenza evoca allo stesso tempo la razionalità elegante e la passione canicolare ... ho un piacere quasi fisico ad utilizzarli. E vorrei anche poter continuare a scrivere come se parlassi tra amiche e amici: non riesco fare comizi, adesso. Sono spaventato dalla situazione e allora preferisco conversare, non perdere la dimensione del noi. Se a volte cito il nome di una compagna o di un compagno (e un'amica o un amico), non è per usare il dito indice o esercitare un pubblico giudizio; al contrario, è che provo a restare a casa mia, con quelli che conosco e che voglio bene.
E a proposito di chi voglio bene: Peppe Roseto (ci risiamo... ma questa volta non ti incazzare subito....) ha fatto un'ottima presentazione del documento che vede come primo firmatario Vendola. Interessanti sono i suoi due spunti nodali: quello della "semplicità" e quello della "unità". Se non ho capito male (e naturalmente adesso sto traducendo a modo mio) Peppe sosteneva che è necessario e possibile essere più "semplici" (anche in polemica con la evocazione della complessità agitata dai soliti noti, Milani e Bove...). Solo così - diceva - si possono capire le differenze e ricostruire l'unità. In altri termini, direbbe il linguista,se denudiamo e decodifichiamo la contraddizione e la portiamo al suo stato di antinomia quasi pura, proprio il processo analitico-interpretativo può costituire la prima negazione necessaria ad innescare la dialettica per le negazioni successive, ovvero per la sintesi superiore (i linguisti generalmente si capiscono solo loro). Ma è vero: per camminare insieme bisogna capirsi: è una sfida davvero interessante. Per questo voglio proporre due antinomie, cioè due coppie di opposti, che sono state al centro della coda di dibattito a fine CPF
uno
Maggioritario e unitario: è la prima antinomia. Maggioritario è quel sistema politico per cui chi ha la maggioranza deve gestire (governare) e chi sta in minoranza fare l'opposizione. I sistemi democratici del dopo-guerra soprattutto in Europa si sono preoccupati di attenuare il carico "dittatoriale" insito in questa impostazione, con una serie di pesanti contrappesi. Chiusa anche ideologicamente la parentesi prima della guerra guerreggiata nel continente e poi, a fine secolo, della guerra fredda, la cultura dominante contemporanea ha ripreso a considerare quei contrappesi lacci e lacciuoli e a preferire il decisionismo leaderistico, come negli anni '30. Ma più di allora, oggi il carattere intrinsecamente autoritario della impostazione maggioritaria è rafforzato proprio dallo sviluppo della potenza produttiva e dalla sua combinazione sociale, dalla crescita d'importanza dell'informazione come merce e come mezzo di produzione.
Ma maggioritaria è anche l'ispirazione secondo cui chi ha la maggioranza all'interno di una organizzazione politica o sociale deve gestire e guidare la stessa organizzazione. E' una tesi assolutamente non originale, diventata "indiscutibile" dopo l'esperienza "bolscevica" (che, non è un caso, significa "di maggioranza") e per tutta la fase della egemonia sul movimento operaio della III° internazionale. Ed è, a parer mio, (so di dire una eresia, ma io lo penso da almeno 20 anni...) è una delle conseguenze della trasposizione del modello della politica e della rivoluzione borghese, con la finalizzazione della conquista del potere, nell'agire comunista.
uno e mezzo
L'impostazione unitaria è alternativa alla impostazione maggioritaria. Ma che significa "impostazione unitaria"? - si chiedeva Gabriele, che dietro l'apparente mitezza nasconde elementi di dogmatismo kantiano. Significa, semplicemente, che una volta stabilita la direzione prevalente di marcia, poi si lavora tutti insieme; Significa, in altri termini, che si discute sulla linea politica e la maggioranza certamente la definisce. Ma, intanto, non "una volta e per sempre", perché la società è movimento e bisogna evitare di adeguare la realtà alle proprie formule; in secondo luogo mettendola a disposizione di una verifica reale dentro il corpo del partito e la rete delle relazioni sociali; in terzo luogo evitando come la peste una selezione del gruppo dirigente basata sul grado di fedeltà e di ubbidienza (e, dunque, di mediocrità), e costruendo invece a partire dall'impegno, dalla militanza, dalle attitudini, dalla volontà, dalla lealtà verso la comunità-partito.
Allora propongo una idea semplice: che tutti quelli che sono d'accordo con "l'impostazione unitaria" che anche Peppe sosteneva, lo dicano pubblicamente. Lo scrivano, lo discutano nei propri circoli, lo comunichino ai livelli nazionali. Così forse è possibile, nonostante tutto, uscire bene da questo congresso.
due
Unità e autonomia è la seconda antinomia: troppe volte utilizziamo l'aggettivo "strategico" per condire il ragionamento sulla politica delle alleanze:. E allora senti dire che l'alleanza con il PD è una necessità "strategica", ovvero, al contrario, il PD è strategicamente un avversario. Certezze che mal si addicono a questa fase. E che decisamente quando vengono applicate nel concreto delle situazioni riservano notevoli sorprese: lo dimostrano le vicende politiche recenti in territori dove pure le compagne ed i compagni sono convinti sostenitori del rapporto "strategico" con il PD: Aversa e Orta. Nel primo caso alle elezioni amministrative abbiamo polemizzato con le primarie, rotto sui contenuti e sulle forme e ci siamo presentati da soli in una coalizione di ispirazione comunista aperta ai movimenti sociali; ad Orta con un pezzo del PD ora fuoriuscito il dialogo era precluso per vicende che hanno poi assunto rilievo giudiziario: ma anche con il resto, non è che si andava molto meglio. E non è per niente strano che abbiamo avuto esperienze positive solo con pezzi di movimento e di cultura politica cattolica. Sia ad Aversa che ad Orta il principio dell'alleanza come valore strategico non ha retto. E pur non essendo antigovernisti per principio si è scelto, sulla base di valutazioni che io definisco "di utilità sociale" e di "igiene politica", di candidare sostanzialmente il nostro partito all'opposizione. Ora è chiaro che non è possibile trasporre sul piano nazionale vicende che hanno respiro locale. Ma chi le ha vissute sa bene che esse sono state e sono paradigmatiche. La politica non è una quantità che si misura con il metro, come i panni al mercato, ma una qualità. Ed ha bisogno dunque di capacità di giudizio e di comparazione.
due e mezzo
Io più o meno la penso così: la chiave per esaminare la politica delle alleanze, e decidere se è giusto o meno stare nei governi nazionali e locali, non può materialisticamente essere un "principio" ma, piuttosto una attività di valutazione del grado di utilità sociale raggiungibile. E in questa valutazione può acquistare senso anche la proposta del patto federativo, o meglio della rete e del partito sociale. Così non ci sarebbe bisogno di un altro soggetto politico che si sovrapponga a Rifondazione (né genericamente di sinistra, né genericamente comunista), ma piuttosto di una rete di relazioni strutturate dal basso con le quali sia possibile affrontare con più forza e con più ragioni le battaglie e misurare la utilità sociale delle posizioni politiche del partito. Rifondazione Comunista per l'oggi e per il domani non per conservatorismo, dunque, ma al contrario perché, con tutti i suoi limiti, il nostro partito è una delle poche organizzazioni in Europa (c'è anche Die Linke in Germania, e qualche altra interessante esperienza nell'Europa settentrionale) che possiede gli elementi di cultura politica per mettere a valore "l'ipotesi consiliarista e reticolare a snodi territoriali" di quello che mi piace definire il partito sociale.
Certo, la valutazione della utilità sociale è una formulazione ambigua, che può nascondere nelle proprie pieghe sacche di opportunismo: è vero. Ma non ci sono alternative se non il principismo governista o anti-governista. Entrambe si muovono esclusivamente nel cielo grigio della politica, tendono a non "scendere a compromessi con la realtà" che è effettivamente un po' più complicata delle formule utilizzate per analizzarla. Così come si muovono e si autoalimentano in quello stesso cielo l'idea della costituente della sinistra e quella dei comunisti, entrambe senza la possibilità concreta di costruire blocco sociale, senza quella materialità che solo il duro, tedioso, a volte oscuro lavoro della costruzione sociale, territorio, per territorio e vertenza per vertenza, garantisce.
Anche qui faccio una proposta: chi è d'accordo con il partito sociale, con la cultura del fare, con i circoli sportelli sociali, lo dica, a prescidere dalle mozioni e dalle "emozioni". Per fortuna non c'è il copyright e ci sono circoli importanti, come quello di Aversa, che hanno sempre avuto questa attitudine.
Proviamo a farci passare l'incazzatura sulle parole e a ritrovare l'entusiasmo dei fatti.
Giosuè Bove
Uno, due, tre, quattro e cinque
A Salvatore, Peppe, Anna Gioia. Ho chiesto in diversi circoli se è possibile organizzare la presentazione del documento Acerbo. In alcuni casi ho avuto risposte, naturalmente scherzose, sulla inutilità della presentazione, perché tanto non c'è "spazio". Non mi sono lamentato, naturalmente, del tono leggero e ironico (anzi il sorridere di noi è l'aspetto del confronto politico che apprezzo di più), ma piuttosto della impostazione "da squadra" che abbiamo (e dico abbiamo, tutti noi) assunto: è evidente che la cattiva e distorta informazione sul "clima da resa dei conti" che è stata montata da organi di stampa per niente neutrali, come la Repubblica e l'Unità, nonché purtroppo da Liberazione, sul famigerato primo CPN sta producendo come un sasso nel mare onde distorsive sempre più ampie nei comportamenti delle compagne e dei compagni. Dunque nessun risentimento, ma piuttosto una preoccupazione che spero potremo superare insieme. Sono convinto che in ogni circolo i compagni sentano l'esigenza vera di capire e di partecipare al "dibattito" che come dice la parola è scuotimento, è scuotere le certezze di ognuno di noi. Io sto provando ad andare a tutte le presentazioni in cui naturalmente sono invitato, per ascoltare, e questo mi sta arricchendo politicamente e umanamente. Lo consiglio vivamente a tutti.
due
A Silviuccio (non il Berlusca, naturalmente) A leggere certe storie viene effettivamente voglia di "andarsene a casa", di affrontare quella grande avventura che è la vita, e che è già attraversata da mille problemi, e mandare a cagare tutti. Ma non ce la possiamo cavare così. E non ci sto alla "notte in cui tutte le vacche sono nere": se da parte di alcuni (quelli che sostengono "Rifondazione in movimento") si continua cocciutamente a proporre una gestione unitaria del partito, da parte dell'area che si è raccolta attorno al "Manifesto per Rifondazione" c'è al contrario una crescente impostazione maggioritaria, del "chi ci sta, ci sta!". Questa impostazione oggi davvero è inadeguata: di fronte alla rapidità con cui la destra sta affondando il coltello nella composizione sociale, di fronte alle prime squadracce fasciste, ai primi episodi di cruda repressione; ma soprattutto di fronte al crescere di consenso sociale e culturale verso la soluzione autoritaria.
La precarietà esistenziale di questa “bella modernità” chiede risposte: e se il centro sinistra non ha saputo che balbettare, le destre offrono ricette spietatamente efficaci, che pescano nei bassi istinti, nei miti della sicurezza e delle piccole patrie, della razza e del “me ne frego”. Di fronte a tutto ciò dobbiamo, e non è una esortazione, ma un imperativo categorico, dobbiamo! ricercare le ragioni dello stare insieme. Chi vuole metterla in rissa è un irresponsabile, chiunque esso sia. Ma non è il momento di abbandonare il campo: è necessario contemporaneamente criticare chi a parole propugna la futura gestione unitaria e poi cade anch'ella/egli nella trappola della rissa, e sostenere con forza le posizioni unitarie. Per questo, conservando i preziosi dubbi che mi consentono di non essere debole (perché le certezze, dice la pubblicità, sono dei deboli), continuo a sostenere la mozione Acerbo e chiedo a tutti di moltiplicare gli sforzi affinché il dibattito sia "depurato" da personalismi e durezze inutili, e invece sia quanto più democratico, aperto e partecipato possibile.
tre
A tutti noi, ma soprattutto a Carlo. Alla presentazione del documento "Acerbo" oltre naturalmente al primo firmatario Maurizio Acerbo, per l'appunto, c'erano tra gli altri Paolo Ferrero, Giovanni Russo Spena, Claudio Grassi, Ramon Mantovani, ma anche Citto Maselli, Francesco Caruso e Andrea Alzetta detto ‘Tarzan’. Hanno detto cose interessanti del tipo "bisogna ricominciare da Rifondazione che serve a unire e a ricostruire una sinistra di opposizione”, e il prc “va mantenuto e rifondato a partire da una maggiore democrazia interna". O, ancora che sarebbe sbagliato "in questa fase discutere di alchimie organizzative e di leader. Dobbiamo dimostrare che la sinistra e’ utile per la società” e che “dobbiamo ripartire dai territori costruendo in ogni quartiere le case della sinistra". Che è possibile "ritrovare la gente" con un "lavoro sociale di lotta al precariato, per l’aumento di stipendi e pensioni", costruendo una sinistra "strategicamente autonoma dal Pd" in grado di lavorare per un alternativa alle destre. E che è necessario "rovesciare la piramide: ricostruire la sinistra non partendo dal vertice ma dal territorio", e che "c’e’ stata una sconfitta epocale per la sinistra dalla quale non possiamo uscire con operazioni ingegneristiche". Insomma, come in un abbraccio, la cultura più tradizionale del movimento operaio e quella più innovativa, da Genova in poi. Ma Genova, più di ogni altra cosa, l'ha rappresentata la dolcezza della lettera di una donna minuta come i vicoli di quella città di mare e dura come l'acciaio che passa in quel porto di camalli e di rivoluzioni: la mamma di Carlo. E' la sua l'adesione più emozionante.
quattro
Ecco la lettera di Haidi. Vi prego di leggerla. "A Genova i processi sul G8 stanno per terminare; incontro uno dei giovani che si è speso in questi anni in difesa di 25 capri espiatori. “E dopo che cosa farai?” gli chiedo. “Non lo so, andrò in montagna, a coltivare la terra”, mi risponde, amaro. Penso che coltivare la terra sia un’ottima cosa, se si tratta di una scelta, ma non se è determinata da una disillusione.
Sera al circolo del Partito: dei vecchi compagni discutono animatamente. “Abbiamo perso perché ci hanno tolto questo”, sbotta uno di loro, la mano aperta su una bandiera con falce e martello. Penso che i simboli sono importanti perché ci rappresentano, parlano delle nostre idee e della nostra storia; penso che è possibile anche rinunciare ad un simbolo, quando storia e idee sono talmente affermate da non avere più bisogno di carta d’identità; ma nella voce di questo compagno c’è la rabbia di chi si sente derubato, gli sono state tolte le parole che conosceva, non gli sono stati dati altri strumenti.
Leggo nella lista ligure: “Il vuoto politico di questi mesi ha fatto sì che io mi senta sempre più un corpo estraneo e solo, rischiando a volte di non sapere se faccio cose giuste”.
Mi telefona una giovane amica: è confusa, demotivata; lo studio è deludente, il lavoro noioso ripetitivo e, neanche a dirlo, precario. Alla fine, quasi per scusarsi, dice: “Noi sognavamo un mondo migliore…”.
Qualche esempio, tra i moltissimi che potrei citare, che ognuno e ognuna di voi può testimoniare. Ad ascoltare le persone si coglie un senso di smarrimento, di pessimismo, che ritrovo solo nei ricordi di trent’anni fa.
Mi scrive anche Baro: “…A sinistra la gente non se la sente di consegnare un mandato in bianco ai propri referenti politici, perché da tempo si sono rotti i meccanismi di rappresentanza e appartenenza, fra la base e i vertici della sinistra.” E ancora: “…il ‘nuovo soggetto politico unitario’ non ha entusiasmato nessuno non perché sia stato fatto in fretta, ma per come è stato proposto: imposto dall’alto, senza alcun processo partecipativo, e per di più venduto come un’esigenza dettata dalla storia”. Penso che abbia ragione, che l’unica cosa da fare, davvero, non limitandoci ad una dichiarazione di intenti, sia quella di riprendere la politica dal basso, di ricominciare dalle persone. E la sua testimonianza mi sembra importante: Francesco è il compagno che segue da quattro anni reti-invisibili, il sito internet che raccoglie tante realtà, diverse tra loro ma segnate tutte da una giustizia negata. Una rete di relazioni che non ha occultato le diversità interne ma ha saputo creare un percorso positivo e duplice: da un lato superare le differenze in nome delle istanze che uniscono le reti; dall’altro rispettare comunque quelle differenze, perché costituiscono il patrimonio singolo di ogni singola realtà. Quelle realtà hanno capito che muoversi in modo unitario, su tematiche chiare e definite, è necessario. Non è troppo tardi perché anche il Partito torni a comprenderlo.
Preferisco più ascoltare che parlare e vi chiedo scusa per queste mie semplici note, rubate ad altre voci. Avrei voluto assistere ad un dibattito congressuale ricco di passioni, autocritico, anche dai toni accesi, ma non spaccato in mozioni contrapposte. Mi dispiace molto che la proposta non sia stata accolta. Ed apprezzo moltissimo del documento Acerbo l’impegno ad una gestione unitaria del Partito. L’errore più grande che possiamo continuare a fare è quella di continuare a dividerci. L’umiliazione più grande, quella di assistere all’assalto del carro del vincitore.
Non ci saranno vincitori, questa volta, se non sapremo fare quello che da anni andiamo dicendo: rifondare la sinistra comunista per rendere più forte la sinistra. Partendo dalle persone, dalla realtà dei loro problemi e, perché no, dai loro sogni. Con rispetto, senza strumentalizzazioni.
Oggi, in campo, c’è la salvaguardia dei diritti costituzionali. Perciò, o riusciremo tutte e tutti insieme o la perdita sarà irreparabile. Ne dovremo rispondere alle generazioni future.
Auguro a tutte e tutti voi un buon lavoro!
cinque
"Esci, partito, dalle tue stanze. Torna amico dei ragazzi di strada” (Vladimir Majakovskij). Mai motto fu più indovinato per un documento.
A Caserta: maggioranza assoluta per il documento "Acerbo" nel comitato politico della federazione provinciale
Composizione politica (aggiornamento h 13,00 del 31/05/2008):
Doc. 1 Acerbo 33 adesioni 54,10%
Doc. 2 Vendola 19 adesioni 31,15%
Doc. 3 Bettarello 4 adesioni 6,56%
Doc. 4 Bellotti 5 adesioni 8,20%
Doc. 5 De Cesaris 0 adesioni 0,00%
Deliberato del CPF del 30 maggio 2008
I componenti del comitato politico della federazione provinciale di Caserta sostenitori del documento "rifondazione in movimento", primo firmatario Acerbo
1. Giosuè Bove - segretario dimissionario della Federazione di Caserta del PRC)
2. Consiglia Camelio - responsabile del nucleo del PRC di Roccamonfina
3. Salvatore Carmellino – segretario del circolo di San Marcellino PRC
4. Nicola Cataletti – commissione lavoro federazione PRC Caserta
5. Maria Emilia Cunti - responsabile della oganizzazione segre. Feder. PRC Caserta
6. Adriana D'Amico – assessora al Comune di Caserta
7. Claudio de Pietro – segretario del circolo territoriale di Valle di Suessola PRC
8. Claudio Dell'Aquila – direttivo del circolo di San Nicola La Strada PRC
9. Antonio Dell'Aquila – capogruppo PRC al consiglio comunale di Caserta
10. Renato Delle Femine – assessore al Comune di Santa Maria Capua Vetere
11. Umberto di Benedetto - segretario dimissionario del Circolo di Caserta PRC
12. Giancarlo di Marco - segretario del circolo di Sessa Aurunca PRC
13. Antonio Ferraiuolo - segretario del circolo di San Marco Evangelista PRC
14. Tesia Fuoco - segretario del circolo di Calvi Risorta PRC
15. Ilaria Gaudagno - direttivo del circolo di Valle di Suessola PRC
16. Anna Giovanna Iodice - direttivo del circolo di Marcianise PRC
17. Antonio Italiano - responsabile del nucleo di Dragoni PRC
18. Giuseppe Leone - segretario del circolo di San Nicola La Strada PRC
19. Augusto Massi - consigliere al Comune di Piedimonte Matese PRC
20. Enrico Milani - assessore alla Provincia di Caserta, membro CPN PRC
21. Palermo Antonella - tesoriera della federazione prov.le di Caserta PRC
22. Pasquale Panico - consigliere al Comune di San Nicola La Strada PRC
23. Statia Papadimitra - coordinatrice prov.le di Caserta dei Giovani Comunisti
24. Angelo Papadimitra - segreteria prov.le di Caserta della CGIL
25. Umberto pezzella - direttivo circolo Santa Maria Capua Vetere PRC
26. Lorenzo Pescatore - direttivo del circolo di PiedimonteMatese PRC
27. Ada Pisanti - coordinamento provincaile di Caserta dei Giovani Comunisti
28. Roberto Romeo - direttivo del circolo di Caserta PRC
29. Roberto Rotunno - segretario dimissionario del circolo di Carinola PRC
30. Vincenzo Salernitano - segretario del circolo di Lusciano PRC
31. Giuseppa Sisto - direttivo del circolo di Piedimonte Matese PRC
32. Riccardo Stravino - segretario del circolo di Maddaloni PRC
33. Marina Zaccaria - presidentessa collegio garanzia fed. Prov.le di Caserta PRC
lunedì 26 maggio 2008
Riprendere il confronto, per tornare a camminare insieme
Rifondazione Comunista ed in generale la sinistra politica in questi ultimi anni, nel tentativo di rendere permeabile il governo di centro sinistra alle istanze radicali, ha provato a trattare e a mediare dall'interno, attenuando ed in alcuni casi interrompendo il suo rapporto con i movimenti e con la società organizzata. Quel tentativo si è infranto sul muro dei rapporti di forza politici e sociali, decisamente sbilanciati verso i poteri forti. La risposta nel “cielo della politica” si è rivelata impotente e “incompresa”, approfondendo le distanze con la società organizzata, fino all'esito disastroso delle scorse elezioni politiche. E intanto è venuta avanti, senza una reale resistenza, una tendenza reazionaria di massa, nutrita dal consenso per il pugno d'acciaio, per la tolleranza zero, per l'uomo forte. Del resto non è la prima volta che ciò accade, e il “ventre” da cui, nella vecchia Europa, nacque il nazifascismo “è ancora gravido di mostri”.
La precarietà esistenziale di questa “bella modernità” chiede risposte: e se il centro sinistra non ha saputo che balbettare, le destre offrono ricette spietatamente efficaci, che pescano nei bassi istinti, nei miti della sicurezza e delle piccole patrie, della razza e del “me ne frego”. La militarizzazione della “questione rifiuti”, la durezza della reazione esemplare a Chiaiano, con la violenza poliziesca apparentemente gratuita, ma invece dosata esattamente per sottolineare l'efficacia decisionista; l'esaltazione del tema della sicurezza in chiave anti-stranieri, la rapidità con cui il governo delle destre sta mettendo sul tavolo le proprie ricette xenofobe, rispondono coerentemente all'obiettivo di ricostruire, nella contrapposizione con il diverso, una identità collettiva e nella soluzione dei problemi certezze, seppure misere, aprendo, volutamente o meno, ma questo è secondario, il “vaso di Pandora” dell'odio razziale: i pogrom anti-rom a Ponticelli e il raid punitivo al quartiere Pigneto a Roma contro i migranti non sono stati certamente avvenimenti inattesi. Non era in discussione il se, ma solo il quando. E altri ne verranno.
Dentro questo quadro generale se la reazione della sinistra politica, nelle sue diverse articolazioni, fosse un rinchiudersi dentro le proprie mura, i propri riti, le proprie insopportabili querelle, anch'essa alla ricerca di qualche certezza, peraltro necessariamente misera, sarebbe non solo un suicidio politico, ma anche un venir meno grave ai compiti storici che questa fase, volenti o nolenti, ci affida. E' necessario invece riprendere il duro e faticoso lavoro della costruzione sociale, del radicamento, della organizzazione, dello stare dentro le masse popolari. E per riprendere questo percorso non basta semplicemente l'autocritica “del linguaggio” e “delle forme”, o, ancora, la “riflessione generale” sul primato della prassi: si tratta piuttosto di praticarlo direttamente e per davvero.
Questo significa in concreto sul nostro territorio che “i silenzi” e “le assenze” devono cessare immediatamente. Devono cessare sulla precarietà e l'insicurezza del lavoro, costruendo capacità di intervento e sostenendo l'autorganizzazione dei soggetti sociali, difendendo i presidi di altra democrazia non delegata che sono i centri sociali, le associazioni, i comitati. Devono cessare sui migranti, non per costruire solidarietà pietista, ma una alleanza "di classe" dentro il percorso per un nuovo movimento operaio; devono cessare sul Macrico e l'assetto del territorio di questa città e di questa provincia, valorizzando la progettualità sociale e dal basso che si è espressa in questi anni; devono cessare sull'emergenza rifiuti, sull'immobilismo e sui condizionamenti affaristico-clientelari negli enti locali, anche qui valorizzando pienamente le esperienze dell'autorganizzazione sociale.
Per questo riteniamo necessaria e urgente una ripresa del confronto sulle cose da fare, innanzitutto, senza escludere anche la discussione “sui massimi sistemi”, ma dando priorità alle questioni e alla cultura del fare. E facciamo una proposta: dedicare una giornata, entro una quindicina di giorni, ad un incontro tra sinistra politica, tutta quella interessata, i suoi rappresentanti istituzionali ed i movimenti, le associazioni, i comitati. Per stabilire un piano di lavoro minimo, senza mettere il carro davanti ai buoi, ma senza nemmeno eludere la necessità della costruzione di una rete che provi, oggi, di fronte all'oscurità dilagante, a farsi trincea resistente; e che, nel costruire società, ragioni anche di un altro mondo possibile.
Giosuè Bove, Umberto di Benedetto
venerdì 16 maggio 2008
L'unità nella "costruzione sociale"
Ho notato che in tutti i documenti nazionali è stato in qualche modo rimosso ogni riferimento al superamento, alla dissolvenza o allo scioglimento di Rifondazione. Personalmente su questo tema ho sentito il bisogno in tempi non sospetti, nel settembre del 2007, di fare una riflessione "teorica" che ho consegnato al dibattito collettivo con il numero 0 di movimentazione. Anche nei momenti in cui andava un po' di moda "l'andare oltre" avevo la posizione che ho oggi: e cioè che la sinistra rischiava di scomparire per effetto di un processo di lunga durata, che le ingegnerie politiche delle costituenti (e dei pateracchi) non avrebbero risolto il problema, che la rifondazione comunista era (ed è) necessaria per l'oggi e per il domani come organizzazione e come ricerca, che la questione centrale era (ed è) la costruzione "sociale" di un nuovo movimento operaio ... Dunque dovrei essere contento di questa "rimozione". E invece no: non mi è piaciuta né la demonizzazione delle posizioni che sostenevano con determinazione la necessità di "accellerare" in direzione di una sinistra non divisa in mille rivoli, né d'altra parte posso apprezzare la rimozione dell'oggi da parte di chi quelle posizioni ha sostenuto forse con un sovrappiù di sufficienza, ed in qualche caso di arroganza, di fronte all'articolarsi reale del dibattito nel partito e nella società. D'altro canto neanche mi convince il posizionamento "doppista" di chi, pur condividendo il percorso proposto dall'appello "Comunisti Uniti", sacrifica completamente alla tattica la propria convinzione: perché anche quella è una tesi importante (che io non condivido) ma che non può essere espunta solo per questioni di "opportunità": in questo modo si rischia di sotterrare gli argomenti veri, schiacciando tutto sulla posizione più "conveniente", meno "scomoda", "facendo della ipocrisia una formula di poesia" e sprecando l'occasione importante di libera discussione e di produzione teorica che questo congresso può ancora essere.
Detto questo in tutti i documenti si sostiene di ripartire da rifondazione. E dunque questo è un importante elemento di unità. Spero che partire da rifondazione significhi partire dalla ricerca e dalla elaborazione teorica di rifondazione, e non dall'abitudine di "dire una cosa e fare l'esatto contrario", praticamente su tutto. Abbiamo fatto così con la sinistra europea, teorizzata come rete orizzontale e dal basso e praticata come affastellamento di ceti politici, dall'alto e quando ci si riusciva anche dal basso. Abbiamo fatto così con la storia della rotazione e dei doppi mandati: l'abbiamo detto e scritto un milione di volte, l'abbiamo giurato a Carrara. Poi puntualmente le cariche di segretario ai diversi livelli si accumulavano a quelle di consigliere, assessore, parlamentare. Abbiamo fatto così con la storia delle donne: vanno bene quando non rompono, ma se pretendono di "contare" anche loro, di ottenere "riconoscimenti e visibilità", allora si fa melina. Ancora oggi: in tutti i documenti si critica la piega leaderistica del dibattito, che ha, io penso per eccesso di generosità, strozzato di fatto da ormai diversi anni non solo il dibattito ma anche l'agire concreto del partito. Poi si apre il congresso e uno "si candida a segretario" e c'è chi lo sostiene e e c'è pure chi lo avversa, mentre sarebbe utile una sana distanza dalla questione del leader: senza nulla togliere a chichessia, non credo siano utili, in questa fase, né gli eroi, né i salvatori della patria, e nemmeno i capri espiatori: ma piuttosto una discussione seria, leale, partecipata, convincente dei "perché" di questa sconfitta storica e dei "come" uscirne.
Il congresso alle porte può essere una grande occasione di dibattito e di produzione di cultura oltre che di linea politica, purché non venga sacrificato ad una conta sul segretario nazionale o, a livello locale, su quello provinciale. Al contrario, sulla base di un confronto quanto più libero, orizzontale e fruibile, il dibattito, deve, a parer mio, provare a costruire una gestione del partito basata sulla "cultura del fare", "unitaria" dal punto di vista del concreto agire e non di astratti schieramenti, a volte di convenienza. Dove è possibile, ed io spero che sia possibile nella nostra federazione (a Caseta, ndr), dobbiamo provare a fare una discussione sulle culture e sulle linee politiche, ritrovandoci poi unitariamente sulle cose da fare (o più precisamente sul metodo e sulla democrazia, decidendo insieme le cose da fare); discutendo sui "massimi sistemi" e agendo "sulle cose concrete". Ritrovando il piacere cioè di confrontarci senza la preoccupazione del posizionamento e intanto provando a costruire una "cultura del fare" nella "costruzione sociale". Per esempio, ma è solo uno degli esempi possibili, trasformando pian piano i nostri circoli da luoghi di semplice discussione politica in veri e propri sportelli sociali, dove non solo sosteniamo e promuoviamo le vertenze, ma facciamo anche volontariato politico e sociale, assistenza legale, del lavoro, promozione di gruppi di acquisto: insomma dove ci apriamo concretamente alla dimensione quotidiana della società. Non per fare un partito di servizio, ma piuttosto per rimettere i piedi a terra, dentro quella terra aspra e terribile che è la società. E attraverso questa esperienza dare gli strumenti alle compagne e ai compagni per crescere, per "formarsi" nel dibattito teorico e politico e forgiarsi nella pratica di massa.
E' su questa unità del fare che io vorrei scommettere.
martedì 13 maggio 2008
Per una efficace politica meridionalista
Nel corso del 2006 la SVIMEZ ha festeggiato i 60 anni della sua attività di ricerca e documentazione sui problemi del Mezzogiorno. Era nata nel 1946 ad opera di un gruppo di meridionalisti in cui spiccavano Rodolfo Morandi e Pasquale Saraceno, che ne fu presidente dal 1970 al 1991. Erano entrambi del Nord . Oggi è raro che uno studioso nato al Nord si occupi del Mezzogiorno. Prevale nel sentimento e nell’opinione pubblica del Nord, così come nella politica e nell’economia, l’idea che il Sud è un problema marginale se non addirittura un peso per lo sviluppo del Paese. Una vera e propria dissoluzione del Sud d’Italia dal discorso economico e politico.
Partecipando due anni fa a quella ricorrenza il capo dello Stato, Giorgio Napolitano, rivendicò una politica nazionale volta a risolvere sia pure gradualmente i problemi del Mezzogiorno. Problemi attuali e al tempo stesso complessi. Anche il voto di Aprile ha confermato che i tempi per questo impegno non sono troppo favorevoli e già i passi del governo precedente non avevano sostanzialmente impresso alcun impulso nuovo. A ciò tra l’altro ha concorso negli anni il declino delle forze politiche a insediamento diffuso su tutto il territorio e ciò ha penalizzato il Sud privandolo in realtà di rappresentanze effettivamente riconosciute e rispettate a livello nazionale e privando contemporaneamente l’Italia di una visione unitaria dei problemi del Paese
LA SITUAZIONE ECONOMICA
Venti gelidi soffiano sull’economia italiana, più freddi ancora quelli che spirano sulle regioni del Mezzogiorno. Il Fmi nel rapporto pubblicato agli inizi di Aprile prevede che quest’anno l’Italia crescerà di poco o per niente, meno dell’1%, mentre l’inflazione sarebbe destinata a stabilizzarsi al di sopra del 2%. Le cause del rallentamento della crescita sono comuni All’Italia e ad altri paesi europei. Le ripercussioni della crisi finanziaria internazionale avviatasi negli Usa nella seconda metà del 2007, l’euro diventato moneta forte che scoraggia le esportazioni europee, una politica monetaria restrittiva della Banca centrale europea che non aiuta gli investimenti. I prezzi intanto aumentano trascinati dal petrolio e dalle materie prime la cui domanda internazionale cresce perchè trainata dai redditi e dalle produzioni dei paese emergenti, prime fra tutte Cina e India, e perché la speculazione finanziaria si è spostata sui mercati dei beni primari dopo aver abbandonato i mutui sulle abitazioni, i titoli di borsa, i crediti derivati. Nel caso italiano ha inciso anche la situazione politica rimasta incerta in tutto il biennio 2006 – 2007 e che ora ha trovato una decisa soluzione a destra che se stabilizza il quadro ne apre nuovi motivi di difficoltà e inquietudine.
LA CONDIZIONE DELLE REGIONI MERIDIONALI
In questo quadro le regioni meridionali risultano le più colpite anche a causa di difficoltà storiche e delle criticità odierne, si pensi alla crisi dei rifiuti in Campania, al calo generalizzato in tutto il Sud della domanda di turismo, alla stessa flessione delle vendite dei prodotti agroalimentari,
La Campania quest’anno si avvia ad una crescita zero del Pil, ad un ulteriore calo dell’occupazione regolare, accompagnato da fenomeni di scoraggiamento che investono soprattutto le componenti più deboli ( giovani e donne ) le quali si ritirano dal mercato del lavoro regolare. Ad una inflazione più alta della media italiana anche a causa di un sistema distributivo inefficiente. Così come particolarmente critica è la situazione delle famiglie che si situano al di sotto della soglia di povertà ( un quinto di tutte le famiglie della regione) e delle famiglie monoreddito che prevalgono ampiamente sul totale. E dalla Campania – così come da altre regioni del Mezzogiorno – è ripreso un flusso di emigrazione interna, soprattutto di giovani e ragazze istruiti, che sfiora ormai i livelli quantitativi degli anni ’60.
LE POLITICHE DEI GOVERNI RECENTI IL GOVERNO BERLUSCONI
Tutti i governi che si sono succeduti negli ultimi 10 – 12 anni hanno avuto , pur con lievi differenze, un forte segno di disattenzione al Mezzogiorno e perfino di ostilità. E il governo che si è appena insediato nasce con l’obiettivo dichiarato di completare per conto della Lega quel federalismo fiscale di cui quel partito ha fatto la principale sua ragione di presenza e di esistenza. Se la capacità di spesa delle Regioni viene strettamente collegata alla loro capacità di raccolta fiscale è chiaro che le regioni più ricche, che raccolgono più risorse, che hanno un Pil più elevato, avranno più risorse da investire in servizi e sviluppo, le più povere lo diventeranno ancora di più. Recenti dati diffusi dalla Banca d’Italia chiariscono bene come la spesa delle Amministrazioni locali della Campania rispetto alla popolazione è significativamente più bassa della media delle regioni a statuto ordinario mentre quelle a statuto speciale spendono più del doppio. Gli stessi dati indicano che la spesa pubblica in tutto il Mezzogiorno ha subito una caduta verticale. E dati Svimez recenti confermano queste tendenze. Lo stesso vale per le spese in conto capitale complessive del Mezzogiorno che risulta di molto inferiore agli obiettivi programmati ritenuti gli obiettivi minimi necessari per fronteggiare le normali esigenze di una così grande parte del Paese. Dati che parlano dunque della mancanza di un disegno nazionale per il Mezzogiorno, dello strangolamento di regioni ed enti locali meridionali, del mancato cofinanziamento dell’unica legge oggi esistente in Italia, quella della Campania, che, pur nei limiti noti, esercita un contrasto alla povertà tramite un reddito di cittadinanza e un previsto pacchetto di servizi gratuiti. Dati che parlano anche di una difficoltà seria della classe politica meridionale che – anche a sinistra – più che studiare e capire i dati della realtà – ha spesso insistito in forma propagandistica e provinciale sulle criticità tutte interne al Mezzogiorno, certo esistenti, enfatizzandole però oltre misura concorrendo ad indebolire ulteriormente la già fragile percezione nel senso comune del Paese di questa parte dell’Italia.
IL SALARIO SOCIALE
Sul federalismo fiscale e sulle forme, anche più estese, di salario sociale occorre invece suscitare un grande movimento di opinione e di massa che muova dal Mezzogiorno investendo movimenti di disoccupati, sindacati, amministrazioni locali democratiche, quelle che ancora per fortuna non sono state travolte dalle destre e che vanno orientate in uno sforzo sempre di più geopolitico di coagulo di forze e di istanze di mobilitazione meridionalista. La giusta attenzione alle politiche locali, alle scelte delle amministrazioni, alla nostra autonoma iniziativa sociale e politica critica, non deve incorrere nell’autolesionismo di evitare di investire su questo terreno per costruire l’opposizione sociale e politica al governo Berlusconi e in essa valorizzare le proposte del Mezzogiorno d’Italia. Non si tratta di sottovalutare le contraddizioni locali ma di saperle risolvere dentro una spinta tesa a cambiare la politica economica del Paese, riprendere un adeguato flusso di spesa verso il Sud, orientarne con politiche pubbliche lo sviluppo, riorganizzarne il riscatto economico e sociale.
Con questo respiro si comprende meglio anche perché i fondi europei hanno inciso così poco sul dato macroeconomico e che i comuni, tanti, in assenza di trasferimenti ordinari hanno utilizzato le risorse straordinarie sugli interventi ordinari. Per questo va fatto una battaglia perché la programmazione per i prossimi sette anni vada ispirata a criteri di concentrazione di risorse e di opere in modo da superare la frammentazione della spesa e produrre interventi più capaci di produrre segnali forti sul piano dell’occupazione e della qualità sociale ed ambientale.
Se si vuole dare una densità alla ricostruzione del Prc e della sinistra nell’opposizione alle politiche del governo delle destre non si potrà sfuggire a una grande battaglia del Mezzogiorno nei confronti delle scelte, da anni delineate, dello Stato centrale al di là dei diversi governi che lo hanno guidato. Movimenti, rappresentanze sindacali, amministrazioni locali democratiche, a partire da Campania e Puglia che devono definire tra loro un più stretto rapporto operativo. Se il federalismo fiscale è così iniquo, se non ci sono scelte di indirizzo produttivo anche per dare una base produttiva materiale e di infrastrutture di qualità ad una realtà così vasta del Paese, se non ci sono misure di sostegno al reddito, perché tanta timidezza con le scelte fatte in questi anni a Roma ?
In un paese che si spezza, che è attraversato drammaticamente da una nuova acutissima questione sociale del lavoro salariato e delle sue moderne subordinazioni che trovano oggi riferimento a destra. Con gli squilibri sociali e territoriali che alimentano conflitti che sempre più spesso non incrociano politica e istituzioni, con il baratro cosi ampio tra politica e paese, la consapevolezza dei pericoli di forzare un conflitto da una parte del Paese deve essere presente. E però qualche scelta occorre farla.
CONTRO LO SVILUPPO DIPENDENTE PER UN MOVIMENTO MERIDIONALISTA SU BASI SOCIALI E GEOPOLITICHE
Attestarsi solo sul proprio territorio senza andare più a fondo ai nodi aperti sull’indirizzo del paese fa correre il rischio di subire l’implosione, l’isolamento, la crisi sotto il peso di contraddizioni e di problemi che non si riescono a risolvere senza aprire un’altra prospettiva economica e sociale.
Le destre tentano ormai da anni con la spinta della Lega a svolgere dal Nord questo ruolo e ora ad insinuarsi anche nel Mezzogiorno con operazioni come quella del movimento di Lombardo. Serve a sinistra, fuori da contrapposizioni tutte localistiche che rischiano di muoversi sugli indirizzi dettati dalle destre, una diversa capacità, sia al Nord che al Sud, di comprendere meglio le condizioni sociali dei rispettivi territori e costruire, dentro una linea nazionale, l’autonomia delle vertenze e delle prospettive delle diverse parti del Paese.
Quello che ci serve è un progetto vero per il Sud, un progetto capace di avere l’ambizione grande di forzare i vincoli della storica dipendenza economica . E per questa via intaccare un quadro sociale ed economico in cui persiste e anzi si accentua la presenza e il peso delle organizzazioni criminali. Un Mezzogiorno che restasse confinato nel suo destino storico di area di consumo, di manodopera a basso costo cui si destinano i segmenti poveri e nocivi della produzione e in cui il modello della precarietà del lavoro non può non avere un effetto sociale più devastante che altrove, non ce la farebbe a trovare anticorpi materiali al potere criminale che non si può contrastare solo con la pur necessaria rivolta etica e morale
La crisi del progetto dell'Unione e l'esito del voto
contributo al dibattito del Comitato Politico Nazionale del PRC del 10 e 11 maggio
L ‘ ondata di paura e di insicurezza che le destre hanno saputo alimentare e interpretare appare – più ancora dopo la replica romana al risultato del 13 e 14 Aprile – una delle cause prevalenti, unitamente a ragioni più di tempo lungo, dell’esito del voto. La fragilità e la debolezza con cui il vecchio schieramento dell’Unione ha cercato di fronteggiare in questi due anni questo clima che montava sono state sconcertanti. La congiuntura storica e politica aveva assegnato a quelle forze un compito gravoso: tentare di disarticolare il consolidarsi di una nuova egemonia sociale delle destre che si avvertiva stava crescendo nel Paese. Già il risultato del 2006 aveva evidenziato la debolezza di radicamento dell’Unione nel tessuto del Paese. Cinque anni di governo delle destre e di mobilitazioni e protagonismo di tanti movimenti non erano bastati ad una affermazione un po’ più netta. Era il primo campanello d’ allarme. La politica di Veltroni ha fatto il resto. Spostando tutto sul terreno politicista dei rapporti o delle rotture tra forze politiche le quali prive tutte di un autentico e significativo insediamento sociale vi si sono rassegnate.
Che i due anni di alleanza avessero consumato, più per le sue modalità che per le pur notevoli divergenze, la possibilità di riproporre al Paese lo stesso schieramento era chiaro. Ma ciò che è mancato è uno sforzo di costruire un terreno nuovo anche di unità, ideare un altro modo di mettere insieme le forze. Si è pensato in entrambi i soggetti che avrebbero dovuto costruire questo sforzo che fosse chiuso un ciclo, esaurita la necessità di mantenere aperto un filo unitario. In questo modo si è sottovalutata la condizione del Paese, le sue fratture e paure, il suo rimodellarsi dentro il nuovo tessuto di egemonia costruito con paziente intelligenza dalle destre. E’ venuta al pettine l’incapacità, culturale prima ancora che politica, a concepire il tema delle alleanze come questione in primo luogo di carattere sociale. E’ infatti la spiegazione povera di chi alla sconfitta di Roma reagisce ricordando che lì l’accordo con la sinistra c’era. E’ il segno di questa pigrizia di fondo che da un lato ha rotto politicisticamente l’alleanza, dall’altro l’ha riproposta ma con lo stesso schema, povero e asfittico, dunque incapace di produrre un risultato.
Le forze del lavoro e la nuova composizione di classe
Le politiche di compressione della domanda e del salario hanno segnato il corpo vivo del lavoro dipendente spezzando un nesso forte col movimento sindacale a sua volta diviso tra chi si accontentava visto il clima e chi pensava di forzare. Gli uni e gli altri impossibilitati a dare un messaggio di ricomposizione al mondo del lavoro per non parlare di quella nuova composizione tecnica del lavoro fatta di precari, di lavoro cognitivo e immateriale, di cooperatori sociali o lavoratori autonomi autosfruttati, cioè quella composizione di classe che il movimento di Genova aveva depositato e col quale, in particolare noi, facendone un feticcio simbolico, abbiamo mancato l’appuntamento storico e strategico. Privo di questo argine il governo, già indebolito dalle proteste corporative di tante categorie, è andato al confronto con le destre, così capaci di suscitare mobilitazioni sociali orizzontali – privo di una alleanza salda e necessaria, se non con quel movimento grande che ci aveva convinti della possibilità di tentare la sfida del governo, almeno coi sindacati e con ciò che resta delle forze classiche del movimento operaio organizzato. Il ciclo storico che ha caratterizzato l’Italia si è da tempo affievolito. Non è una novità neppure il voto a destra di tanti lavoratori. M negli ultimi dieci - quindici anni la contesa era rimasta aperta. Non a caso lo stesso movimento sindacale, pur tra limiti e problemi, ha continuato ancora ad esercitare un ruolo. D’ora in poi però cambia tutto e il sindacato, quali che saranno le sue scelte, è chiaro che finisce anch’esso duramente sotto attacco.
Il ruolo e gli errori soggettivi di Rifondazione Comunista e la sconfitta di Veltroni
In questo esito drammatico le nostre responsabilità non sono poche. Non abbiamo saputo esercitare quel ruolo necessario a condizionare positivamente la coalizione, per il venir meno certo di una spinta dei movimenti, ma anche per l’incapacità a costruire il peso sulle istituzioni di un disagio sociale più limitato ma comunque vivo.
Parimenti, e quasi come una conseguenza di ciò, non abbiamo saputo conservare quel profilo di sobrietà unitaria necessario in grado non solo di non lacerare ulteriormente i fili di un dialogo in fondo spezzato da Mastella, ma soprattutto di non essere così tanto esposti a pagarne i prezzi, come è avvenuto, anche in caso di rottura. Il fallimento reciproco delle rispettive strategie (Veltroni da una parte, l’Arcobaleno dall’altro) impongono grandi mutamenti. Non solo congiunturali. Perché l’esito cui giunge la vicenda dell’Italia parla di processi profondi inscritti dentro vicende ancora più grandi che hanno trasformato gli stessi assetti del mondo nel corso degli ultimi venti – venticinque anni. Tante illusioni provinciali e di parte si sgretolano al cospetto di fenomeni giganteschi, più di fondo, e anche più recenti, che segnano il violento e pervasivo cambio di volto dell’Italia. In presenza di questo esito nazionale del ciclo lungo del capitalismo dopo l’89, della potenza e della crisi anche della globalizzazione, della nuova e sconvolgente realtà della guerra su dimensioni di fatto mondiali e alla vigilia di un nuovo ciclo di crisi economica drammatica in tutto il mondo, le forzature provinciali sulla nascita del Pd e sulle primarie, le sue ambizioni di nuovismo svaniscono del tutto. Così come appaiono in una luce diversa tante nostre elaborazioni, lo stesso congresso di Venezia, esperienze di positiva innovazione che restano per noi importanti ma che non vanno feticizzate perché anch’esse poco hanno potuto ed inciso nel cuore profondo dei processi materiali che in questi anni mordevano il Paese.