di Giosué Bove
Ho notato che in tutti i documenti nazionali è stato in qualche modo rimosso ogni riferimento al superamento, alla dissolvenza o allo scioglimento di Rifondazione. Personalmente su questo tema ho sentito il bisogno in tempi non sospetti, nel settembre del 2007, di fare una riflessione "teorica" che ho consegnato al dibattito collettivo con il numero 0 di movimentazione. Anche nei momenti in cui andava un po' di moda "l'andare oltre" avevo la posizione che ho oggi: e cioè che la sinistra rischiava di scomparire per effetto di un processo di lunga durata, che le ingegnerie politiche delle costituenti (e dei pateracchi) non avrebbero risolto il problema, che la rifondazione comunista era (ed è) necessaria per l'oggi e per il domani come organizzazione e come ricerca, che la questione centrale era (ed è) la costruzione "sociale" di un nuovo movimento operaio ... Dunque dovrei essere contento di questa "rimozione". E invece no: non mi è piaciuta né la demonizzazione delle posizioni che sostenevano con determinazione la necessità di "accellerare" in direzione di una sinistra non divisa in mille rivoli, né d'altra parte posso apprezzare la rimozione dell'oggi da parte di chi quelle posizioni ha sostenuto forse con un sovrappiù di sufficienza, ed in qualche caso di arroganza, di fronte all'articolarsi reale del dibattito nel partito e nella società. D'altro canto neanche mi convince il posizionamento "doppista" di chi, pur condividendo il percorso proposto dall'appello "Comunisti Uniti", sacrifica completamente alla tattica la propria convinzione: perché anche quella è una tesi importante (che io non condivido) ma che non può essere espunta solo per questioni di "opportunità": in questo modo si rischia di sotterrare gli argomenti veri, schiacciando tutto sulla posizione più "conveniente", meno "scomoda", "facendo della ipocrisia una formula di poesia" e sprecando l'occasione importante di libera discussione e di produzione teorica che questo congresso può ancora essere.
Detto questo in tutti i documenti si sostiene di ripartire da rifondazione. E dunque questo è un importante elemento di unità. Spero che partire da rifondazione significhi partire dalla ricerca e dalla elaborazione teorica di rifondazione, e non dall'abitudine di "dire una cosa e fare l'esatto contrario", praticamente su tutto. Abbiamo fatto così con la sinistra europea, teorizzata come rete orizzontale e dal basso e praticata come affastellamento di ceti politici, dall'alto e quando ci si riusciva anche dal basso. Abbiamo fatto così con la storia della rotazione e dei doppi mandati: l'abbiamo detto e scritto un milione di volte, l'abbiamo giurato a Carrara. Poi puntualmente le cariche di segretario ai diversi livelli si accumulavano a quelle di consigliere, assessore, parlamentare. Abbiamo fatto così con la storia delle donne: vanno bene quando non rompono, ma se pretendono di "contare" anche loro, di ottenere "riconoscimenti e visibilità", allora si fa melina. Ancora oggi: in tutti i documenti si critica la piega leaderistica del dibattito, che ha, io penso per eccesso di generosità, strozzato di fatto da ormai diversi anni non solo il dibattito ma anche l'agire concreto del partito. Poi si apre il congresso e uno "si candida a segretario" e c'è chi lo sostiene e e c'è pure chi lo avversa, mentre sarebbe utile una sana distanza dalla questione del leader: senza nulla togliere a chichessia, non credo siano utili, in questa fase, né gli eroi, né i salvatori della patria, e nemmeno i capri espiatori: ma piuttosto una discussione seria, leale, partecipata, convincente dei "perché" di questa sconfitta storica e dei "come" uscirne.
Il congresso alle porte può essere una grande occasione di dibattito e di produzione di cultura oltre che di linea politica, purché non venga sacrificato ad una conta sul segretario nazionale o, a livello locale, su quello provinciale. Al contrario, sulla base di un confronto quanto più libero, orizzontale e fruibile, il dibattito, deve, a parer mio, provare a costruire una gestione del partito basata sulla "cultura del fare", "unitaria" dal punto di vista del concreto agire e non di astratti schieramenti, a volte di convenienza. Dove è possibile, ed io spero che sia possibile nella nostra federazione (a Caseta, ndr), dobbiamo provare a fare una discussione sulle culture e sulle linee politiche, ritrovandoci poi unitariamente sulle cose da fare (o più precisamente sul metodo e sulla democrazia, decidendo insieme le cose da fare); discutendo sui "massimi sistemi" e agendo "sulle cose concrete". Ritrovando il piacere cioè di confrontarci senza la preoccupazione del posizionamento e intanto provando a costruire una "cultura del fare" nella "costruzione sociale". Per esempio, ma è solo uno degli esempi possibili, trasformando pian piano i nostri circoli da luoghi di semplice discussione politica in veri e propri sportelli sociali, dove non solo sosteniamo e promuoviamo le vertenze, ma facciamo anche volontariato politico e sociale, assistenza legale, del lavoro, promozione di gruppi di acquisto: insomma dove ci apriamo concretamente alla dimensione quotidiana della società. Non per fare un partito di servizio, ma piuttosto per rimettere i piedi a terra, dentro quella terra aspra e terribile che è la società. E attraverso questa esperienza dare gli strumenti alle compagne e ai compagni per crescere, per "formarsi" nel dibattito teorico e politico e forgiarsi nella pratica di massa.
E' su questa unità del fare che io vorrei scommettere.
movimentazione / il dibattito
venerdì 16 maggio 2008
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