movimentazione / il dibattito

sabato 31 maggio 2008

uno, uno e mezzo, due, due e mezzo (con una premessa). Della semplicità, dell'unità e dell'autonomia

di Giosuè Bove

premessa

La titolazione che qualche volta adotto per distinguere un pensiero o un argomento dall'altro, utilizzando la sequenza dei numeri ed esprimendoli rigorosamente a lettere è un vezzo, o più precisamente un plagio: lo confesso, sono un lettore accanito di Andrea Camilleri e il suo Montalbano è uno sbirro che, però, mi piace. Chi ha voluto vedere nella sequenza "uno, due, tre, quattro e cinque" un modo di contare le tacche sul fucile del tiratore scelto è evidentemente influenzato da altro tipo di letture. Vi giuro che non ho intenti omicidi, e che invece amo la discussione, l'argomentare anche aspro. E che il litigare delle idee non mi produce effetto sulle relazioni affettive, se non temporaneamente (sempre di carne sono fatto, e da parecchi anni, purtroppo, anche con una certa abbondanza). Vorrei, dunque, poter continuare con questo vezzo e con questo plagio. I numeri hanno un loro fascino, vengono dal deserto, dai commerci antichi, portano addosso il sapore della sabbia e del mare. La loro sequenza evoca allo stesso tempo la razionalità elegante e la passione canicolare ... ho un piacere quasi fisico ad utilizzarli. E vorrei anche poter continuare a scrivere come se parlassi tra amiche e amici: non riesco fare comizi, adesso. Sono spaventato dalla situazione e allora preferisco conversare, non perdere la dimensione del noi. Se a volte cito il nome di una compagna o di un compagno (e un'amica o un amico), non è per usare il dito indice o esercitare un pubblico giudizio; al contrario, è che provo a restare a casa mia, con quelli che conosco e che voglio bene.
E a proposito di chi voglio bene: Peppe Roseto (ci risiamo... ma questa volta non ti incazzare subito....) ha fatto un'ottima presentazione del documento che vede come primo firmatario Vendola. Interessanti sono i suoi due spunti nodali: quello della "semplicità" e quello della "unità". Se non ho capito male (e naturalmente adesso sto traducendo a modo mio) Peppe sosteneva che è necessario e possibile essere più "semplici" (anche in polemica con la evocazione della complessità agitata dai soliti noti, Milani e Bove...). Solo così - diceva - si possono capire le differenze e ricostruire l'unità. In altri termini, direbbe il linguista,se denudiamo e decodifichiamo la contraddizione e la portiamo al suo stato di antinomia quasi pura, proprio il processo analitico-interpretativo può costituire la prima negazione necessaria ad innescare la dialettica per le negazioni successive, ovvero per la sintesi superiore (i linguisti generalmente si capiscono solo loro). Ma è vero: per camminare insieme bisogna capirsi: è una sfida davvero interessante. Per questo voglio proporre due antinomie, cioè due coppie di opposti, che sono state al centro della coda di dibattito a fine CPF

uno
Maggioritario e unitario: è la prima antinomia. Maggioritario è quel sistema politico per cui chi ha la maggioranza deve gestire (governare) e chi sta in minoranza fare l'opposizione. I sistemi democratici del dopo-guerra soprattutto in Europa si sono preoccupati di attenuare il carico "dittatoriale" insito in questa impostazione, con una serie di pesanti contrappesi. Chiusa anche ideologicamente la parentesi prima della guerra guerreggiata nel continente e poi, a fine secolo, della guerra fredda, la cultura dominante contemporanea ha ripreso a considerare quei contrappesi lacci e lacciuoli e a preferire il decisionismo leaderistico, come negli anni '30. Ma più di allora, oggi il carattere intrinsecamente autoritario della impostazione maggioritaria è rafforzato proprio dallo sviluppo della potenza produttiva e dalla sua combinazione sociale, dalla crescita d'importanza dell'informazione come merce e come mezzo di produzione.
Ma maggioritaria è anche l'ispirazione secondo cui chi ha la maggioranza all'interno di una organizzazione politica o sociale deve gestire e guidare la stessa organizzazione. E' una tesi assolutamente non originale, diventata "indiscutibile" dopo l'esperienza "bolscevica" (che, non è un caso, significa "di maggioranza") e per tutta la fase della egemonia sul movimento operaio della III° internazionale. Ed è, a parer mio, (so di dire una eresia, ma io lo penso da almeno 20 anni...) è una delle conseguenze della trasposizione del modello della politica e della rivoluzione borghese, con la finalizzazione della conquista del potere, nell'agire comunista.

uno e mezzo
L'impostazione unitaria è alternativa alla impostazione maggioritaria. Ma che significa "impostazione unitaria"? - si chiedeva Gabriele, che dietro l'apparente mitezza nasconde elementi di dogmatismo kantiano. Significa, semplicemente, che una volta stabilita la direzione prevalente di marcia, poi si lavora tutti insieme; Significa, in altri termini, che si discute sulla linea politica e la maggioranza certamente la definisce. Ma, intanto, non "una volta e per sempre", perché la società è movimento e bisogna evitare di adeguare la realtà alle proprie formule; in secondo luogo mettendola a disposizione di una verifica reale dentro il corpo del partito e la rete delle relazioni sociali; in terzo luogo evitando come la peste una selezione del gruppo dirigente basata sul grado di fedeltà e di ubbidienza (e, dunque, di mediocrità), e costruendo invece a partire dall'impegno, dalla militanza, dalle attitudini, dalla volontà, dalla lealtà verso la comunità-partito.
Allora propongo una idea semplice: che tutti quelli che sono d'accordo con "l'impostazione unitaria" che anche Peppe sosteneva, lo dicano pubblicamente. Lo scrivano, lo discutano nei propri circoli, lo comunichino ai livelli nazionali. Così forse è possibile, nonostante tutto, uscire bene da questo congresso.

due
Unità e autonomia è la seconda antinomia: troppe volte utilizziamo l'aggettivo "strategico" per condire il ragionamento sulla politica delle alleanze:. E allora senti dire che l'alleanza con il PD è una necessità "strategica", ovvero, al contrario, il PD è strategicamente un avversario. Certezze che mal si addicono a questa fase. E che decisamente quando vengono applicate nel concreto delle situazioni riservano notevoli sorprese: lo dimostrano le vicende politiche recenti in territori dove pure le compagne ed i compagni sono convinti sostenitori del rapporto "strategico" con il PD: Aversa e Orta. Nel primo caso alle elezioni amministrative abbiamo polemizzato con le primarie, rotto sui contenuti e sulle forme e ci siamo presentati da soli in una coalizione di ispirazione comunista aperta ai movimenti sociali; ad Orta con un pezzo del PD ora fuoriuscito il dialogo era precluso per vicende che hanno poi assunto rilievo giudiziario: ma anche con il resto, non è che si andava molto meglio. E non è per niente strano che abbiamo avuto esperienze positive solo con pezzi di movimento e di cultura politica cattolica. Sia ad Aversa che ad Orta il principio dell'alleanza come valore strategico non ha retto. E pur non essendo antigovernisti per principio si è scelto, sulla base di valutazioni che io definisco "di utilità sociale" e di "igiene politica", di candidare sostanzialmente il nostro partito all'opposizione. Ora è chiaro che non è possibile trasporre sul piano nazionale vicende che hanno respiro locale. Ma chi le ha vissute sa bene che esse sono state e sono paradigmatiche. La politica non è una quantità che si misura con il metro, come i panni al mercato, ma una qualità. Ed ha bisogno dunque di capacità di giudizio e di comparazione.

due e mezzo
Io più o meno la penso così: la chiave per esaminare la politica delle alleanze, e decidere se è giusto o meno stare nei governi nazionali e locali, non può materialisticamente essere un "principio" ma, piuttosto una attività di valutazione del grado di utilità sociale raggiungibile. E in questa valutazione può acquistare senso anche la proposta del patto federativo, o meglio della rete e del partito sociale. Così non ci sarebbe bisogno di un altro soggetto politico che si sovrapponga a Rifondazione (né genericamente di sinistra, né genericamente comunista), ma piuttosto di una rete di relazioni strutturate dal basso con le quali sia possibile affrontare con più forza e con più ragioni le battaglie e misurare la utilità sociale delle posizioni politiche del partito. Rifondazione Comunista per l'oggi e per il domani non per conservatorismo, dunque, ma al contrario perché, con tutti i suoi limiti, il nostro partito è una delle poche organizzazioni in Europa (c'è anche Die Linke in Germania, e qualche altra interessante esperienza nell'Europa settentrionale) che possiede gli elementi di cultura politica per mettere a valore "l'ipotesi consiliarista e reticolare a snodi territoriali" di quello che mi piace definire il partito sociale.
Certo, la valutazione della utilità sociale è una formulazione ambigua, che può nascondere nelle proprie pieghe sacche di opportunismo: è vero. Ma non ci sono alternative se non il principismo governista o anti-governista. Entrambe si muovono esclusivamente nel cielo grigio della politica, tendono a non "scendere a compromessi con la realtà" che è effettivamente un po' più complicata delle formule utilizzate per analizzarla. Così come si muovono e si autoalimentano in quello stesso cielo l'idea della costituente della sinistra e quella dei comunisti, entrambe senza la possibilità concreta di costruire blocco sociale, senza quella materialità che solo il duro, tedioso, a volte oscuro lavoro della costruzione sociale, territorio, per territorio e vertenza per vertenza, garantisce.
Anche qui faccio una proposta: chi è d'accordo con il partito sociale, con la cultura del fare, con i circoli sportelli sociali, lo dica, a prescidere dalle mozioni e dalle "emozioni". Per fortuna non c'è il copyright e ci sono circoli importanti, come quello di Aversa, che hanno sempre avuto questa attitudine.
Proviamo a farci passare l'incazzatura sulle parole e a ritrovare l'entusiasmo dei fatti.

Giosuè Bove

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